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Kantar/ Consumatori, Brand e Comunicazione: “No al silenzio, no alla retorica e al paternalismo: il consumatore chiede ai brand una pubblicità ‘normale’, che lo guidi verso la nuova normalità. Per non rischiare, dati e analisi sono indispensabili”

Inauguriamo con questa videointervista al CEO Italy, Greece & Israel, Insights Division di Kantar una nuova serie di appuntamenti in collaborazione fra ADVexpress e la company, dedicati all’approfondimento dello strettissimo rapporto fra Consumatori, Brand e Comunicazione. L’istituto di ricerca ha creato proprio nel nostro paese il modello di ricerca del ‘Covid-19 Barometer’ poi esteso a coprire oltre 50 paesi: un’analisi aggiornata settimanalmente da cui emergono importanti evidenze: prima fra tutte, la necessità per i brand di essere coerenti nella loro comunicazione rispetto al loro passato e ai loro valori; e poi il cambiamento di mood generale del consumatore, che oggi è prontissimo a recepire e ingaggiarsi con una pubblicità non strettamente legata al contesto della crisi sanitaria, e che anticipi il suo desiderio di ritorno alla normalità.

“Il dato più eclatante emerso dal Barometro – esordisce Federico Capeci,  CEO Italy, Greece & Israel, Insights Division di Kantar – è che quando abbiamo chiesto ai consumatori cosa suggerirebbero alle aziende, solo il 6% ha indicato lo stop della pubblicità. Un dato che mette alla luce come un iceberg tutto un insieme di situazioni da esplorare: il brand, in qualità di portatore di valori e di rappresentazioni è un qualcosa cui i consumatori sono abituati e di cui hanno bisogno. Glielo abbiamo instillato noi, in tanti anni di marketing, ed è giusto che sia così. Quindi il silenzio non è qualcosa che i consumatori gradiscono, sia per le marche più nuove, dirompenti, intrattenitive, che per quelle più quotidiane e vicine”.

Il dato evidenzia inoltre che se le aziende smettono di fare advertising la cosa è assolutamente comprensibile: “Ma è importante che la decisione sia frutto di una scelta – nota Capeci –, magari una ricerca di saving, ma ci si deve arrivare dopo aver misurato anche l’impatto del silenzio, non solo quello dell’on air come spesso facciamo. Purtroppo siamo in un momento in cui si deve ragionare anche in senso contrario, in termini di deprivazione: e la cosa riguarda anche noi, che non dobbiamo più fare ricerche su come crescere ma su come alimentare la decrescita”. 

Comunicare sì, ma senza retorica e toni paternalistici.

Un altro elemento fondamentale evidenziato da Capeci è come debba essere la pubblicità di chi non sta in silenzio. “Soprattutto nella fase iniziale dell’emergenza, ma adesso sta già cambiando, il linguaggio e il tone of voice sono stati un deterrente piuttosto che un attrattore
dell’attenzione ben più alti dei contenuti stessi.
Un’overdose di toni paternalistici ed emotivi, è stato il primo punto che il nostro Barometro ha registrato. Siamo in un momento in cui si gioca sul filo del rasoio, ed è facile correre dei rischi. Avendo tantissimi clienti con i quali ho relazioni continuative anche adesso, mi permetto di aggiungere che spessissimo si smette di fare pubblicità proprio perché si ha paura di farla sbagliata”.

Capeci anticipa quindi ad ADVexpress i risultati di un’altra ricerca Kantar: “Abbiamo ritestato tutta una serie di advertising già testato prima del COVID-19, e ci siamo chiesti se quelle stesse pubblicità durante il lockdown avessero un impatto minore, uguale o superiore. Il field di due settimane fa, quindi a oltre due mesi dal lockdown, ci ha dimostrato tre cose.

1. Le pubblicità che funzionavano prima tornano a essere efficaci anche adesso. È passato il momento in cui si doveva per contestualizzare la pubblicità. E questo lo voglio dire con forza, perché non solo agenzie di comunicazione e società di consulenza, ma anche professionisti del mio stesso settore continuano a dire che oggi occorra pubblicità specifica per il Covid-19. Questo era vero all’inizio, ora non più: la fruizione dei mezzi si è talmente normalizzata che il consumatore riesce a discernere perfettamente un contenuto filmico e di storytelling da uno evidentemente più realistico.

2. Siamo passati da un momento in cui non si poteva più dire semplicemente ‘abbracciamoci’, perché si creava scandalo o derisione dai social, a un momento invece in cui la socialità riacquisisce un valore importante. Il consumatore è più smart di come noi lo pensiamo, ed è perfettamente capace di andare oltre il contenuto e accettare le metafore. Soprattutto dopo due mesi di lockdown.

3. Il terzo insight molto forte è che rimangono la necessità e la volontà del consumatore di approcciare una relazione con i brand di tipo valoriale ed emotivo: nonostante ciò, per dirlo in modo ironico, non bastano una canzone lirica, una bandiera e un balcone…

L’eccesso di retorica contrasta con l’esigenza di ritorno alla normalità delle persone. Chi senza numeri in mano insiste nel dire che si deve parlare solo di purpose, solo di valori e solo attraverso pubblicità ad hoc, rischia di fare un danno enorme! Per chi non è stato partecipe di questo filone comunicativo fino ad adesso, non è il momento di iniziare: la credibilità sarebbe molto bassa e si creerebbe un problema di disengagement molto forte”.

Secondo l’ultima edizione del Barometro Covid-19 (leggi news) le generazioni più giovani, Centennial e Millennial, sembrano però rifiutare un tono più ironico e umoristico della comunicazione: “Tutti i consumatori, ma soprattutto i più giovani, stanno facendo delle scelte rispetto alle fonti dei messaggi, pubblicitari e non – spiega Capeci –.

La forma dell’ironia continua a essere usata, ma è consentita solamente all’interno dei loro nuclei, delle cerchie più strette. Non dimentichiamo che sono i giovani quelli a cui questa crisi sta limitando il futuro, privandoli della socializzazione e della vita fuori casa. Pensiamo ai molti che erano in stage o in apprendistato e che vedono sfumare molte possibilità di lavoro”.

Questo, sottolinea il Ceo di Kantar Insights Division, non preclude quanto detto prima: “L’attesa del ritorno alla normalità è però all’insegna della coerenza: il consumatore si aspetta cioè che il brand continui a essere quello che era in fase pre-Covid-19. Se non ha mai parlato di valori e non ha mai avuto un tono serioso non è il caso di iniziare. E viceversa: perché se il tono della marca è sempre stato serio non è questo il momento di iniziare a scherzare. Non è quindi affatto escluso il ritorno all’ironia: ma deve già essere nelle corde del brand. È un momento straordinario per intrattenere le persone, quindi lo humour ci può stare. Bisogna saperlo dosare in un significato un po’ più concreto”.


La necessità di misurazione
“Stiamo tutti navigando come un elefante in una cristalliera – aggiunge Capeci –, per questo
secondo me è di fondamentale importanza essere guidati da analisi e dati. Affrontare la
situazione attuale sulla base delle opinioni personali è un delitto che non riesco a sopportare”.
Vanno però fatte anche le domande giuste: “I clienti ci chiedono come cambia lo scenario dei consumatori, come cambia il consumatore. Ma il primo consiglio che mi sento di dar loro è invece di domandarsi se e come deve cambiare il loro brand: perché nessuno è oggi in grado di dire se i cambiamenti vissuti nel lockdown possano essere duraturi o no”.

Quel che è certo è che questo periodo di lockdown ha causato delle gravissime lacerazioni
fra consumatori e brand: “Qualcuno ha perso top of mind o ha perso notorietà per essere rimasto in silenzio, qualcun altro ha visto il proprio settore completamente devastato come nel caso dell’Out Of Home, che vive del consumo fuori casa. Così Automotive, Travel e Turismo, che hanno subito più direttamente di altri l’impatto dell’emergenza sanitaria. All’interno di questi settori ci sono stati poi i comportamenti sbagliati di alcune aziende che hanno creato un distacco difficile da colmare – come chi fino a ieri faceva pubblicità con il volantino e ora ha iniziato a parlare dei grandi valori –. Occorre perciò capire se si sono generati dei gap e come questi vadano al più presto colmati: tornando a fare advertising quando il problema è di immagine o di top of mind, oppure mettendo a punto tutti i touchpoint quando il problema è relativo all’experience. E ripeto: tutto questo va misurato, non solo relativamente alle proprie eventuali colpe ma alla situazione in generale”.

Capeci cita altri due esempi: “Sicuramente molte private equity all’interno del settore del Lusso possono trovare un momento di straordinaria opportunità, ma il mercato italiano sta davvero soffrendo moltissimo. Oppure il settore Bancario, che nell’impossibilità per i clienti di andare in filiale ha visto una grande opportunità di spingere l’home banking: ma finché non si capisce se, quanto e perché il cliente preferirebbe piuttosto tornare in banca e si continua a pensare che questo sia dovuto alla storicità del brand o al rapporto con il direttore, le opportunità si perdono.
Pensiamo a un signore anziano che oggi sulle piattaforme online di ecommerce dei retailer o di home banking di un istituto di credito: se l’esperienza non è gratificante, il danno per il brand sarà triplo!”.


Un’opportunità mancata per l’innovazione
“La più grande missed opportunity che abbiamo avuto e che dovremo cercare di colmare
velocemente è quella che riguarda l’innovazione – dice Capeci –. Pensiamo a che cosa è
mancato in questo periodo in termini di ‘nuovo’ dal punto di vista di prodotto, di modelli di
relazione, di servizio…E questo è sorprendente. Se escludiamo un paio di app per evitare le code, anche nel campo del digitale, dove molte delle persone e delle famiglie stanno superando il divide iniziale, si parla comunque di un’accelerazione ma non può essere chiamata innovazione”.

Questa, secondo Capeci, dovrebbe esprimersi anzitutto in due modalità: “La prima è appunto quella di prodotto. Sono nati nuovi segmenti, nuove occasioni di consumo, nuove modalità, c’è stato un enorme fervore nelle nostre case: il manager che fa la pizza con la figlia, gli aperitivi a casa, momenti e situazioni in cui il consumatore era aperto a qualsiasi cosa ma non si è visto davvero nulla di nuovo dal punto di vista del prodotto. Perché le aziende che andavano bene avevano problematiche di stock e di magazzino e dovevano rincorrerle, e chi andava male non aveva i mezzi per sfruttare l’opportunità.
Ma attenzione: c’è ancora del tempo da questo punto di vista, perché il modo di vivere la casa di questo periodo probabilmente rimarrà ancora per un po’”.
E conclude: “Il secondo aspetto mancato dell’innovazione riguarda i modelli di experience:
perché abbiamo tutti vissuto la tristezza degli aperitivi via videocall e, forse, anche in quest’area ci poteva essere qualche novità interessante a livello di servizio da poter generare”.

 

Tommaso Ridolfi