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Re-shape the future. Fanfani (TBWA\Italia): “La crisi è un acceleratore di competenze che, insieme alla richiesta di comunicazione ‘alta’ e ottimizzazione commerciale da parte delle aziende, porta l’agenzia verso un ruolo sempre più consulenziale”

Il Country Manager & CEO dell'agenzia interpreta ai microfoni di Advexpress i segnali di cambiamento dell’attuale scenario, osservando come alla forte esigenza di comunicare il purpose di ogni brand si affianchi la necessità di un ROI di breve periodo: su questo doppio binario si gioca il ruolo sempre più consulenziale di un’agenzia creativa come TBWA, che non ha il potere di orientare gli investimenti media dei clienti, ma può offrire loro un supporto strategico concreto a monte della comunicazione, grazie allo sviluppo di tool proprietari come Disruption X e, soprattutto, alla guida di un team forte e strutturato. E i risultati di questo approccio non mancano.

Prosegue l'inchiesta avviata da Advexpress tra le maggiori agenzie e aziende per esplorare il nuovo scenario della comunicazione contemporanea. A rispondere alle nostre domande è Marco Fanfani, Country Manager & CEO TBWA\Italia.

Nel contesto incerto e mutevole di un mercato che si sta riconfigurando in vista di un
graduale ritorno a una 'nuova normalità', le aziende cercano un nuovo equilibrio fra risultati di business immediati e di lungo periodo. Come e quanto sono cambiate le richieste dei clienti nei confronti delle agenzie da questo punto di vista?

La pandemia in realtà, come tutte le crisi, ha avuto la caratteristica fondamentale di essere un acceleratore di cose già in atto. Prendiamo l’esempio dello dello smart working: siamo stati la prima agenzia a utilizzarlo per solo due giorni al mese perché ero molto scettico. In realtà si è rivelato uno strumento straordinario per ridisegnare il modello di lavoro, e questo periodo ci ha dimostrato che l’efficienza non è diminuita ma in alcuni casi aumentata.
L’altra cosa che è cambiata, e la pandemia anche qui c’entra fino a un certo punto, è che il mondo sta andando in una direzione precisa ma vagamente dicotomica: c’è una richiesta importante di comunicazione ‘alta’, di ‘purpose’, di ritrovare il senso ‘alto’ del brand; ma dall’altra parte se guardiamo quello che oggi la comunicazione ci offre soprattutto sul fronte digitale, dal punto di vista del ritorno, della misurazione del ROI, c’è un’esigenza commerciale e tattica altrettanto forte. Oggi più di ieri, quindi, dobbiamo essere consulenti di un’azienda per aiutarla a mantenere la barra dritta verso il raggiungimento del purpose, e al tempo stesso declinare questo ‘alto’, alla luce delle esigenze tattiche che sussitono, su tutte le piattaforme a disposizione. L’attenzione al’ottimizzazione è nessaria e deve rimanere, ma ciò che vedo in questo momento è un’accentuazione di tutti i messaggi commerciali e dei ritorni a discapito di una maggior attenzione al purpose.


Come state rispondendo attraverso approcci e proposition innovative a questa esigenza di maggior consulenza?
Abbiamo un team di 180 persone nel mondo che ogni settimana analizza gli ‘edges’, ovvero trend piccoli e grandi che insieme a elementi più oggettivi di marketing confluiscono in uno strumento chiamato ‘Disruption X’, sviluppato a livello internazionale proprio per rispondere alla domanda dei clienti di una consulenza concreta e strategica ancor prima della realizzazione della comunicazione.

Il momento sta favorendo la scelta da parte delle aziende dei grandi gruppi come il vostro?

Mi piacerebbe che fosse così… Oggi in realtà, come le persone anche le aziende sono clusterizzate: da chi a un estremo richiede il full service a chi invece è per lo spezzettamento e la parcellizzazione. Non vedo un trend spiccato nell’una o nell’altra direzione. Più in generale, credo che anche da parte delle aziende ci sia una dicotomia nella ricerca da un lato della altissima specializzazione – dal programmatic al social a molte altre discipline – e dall’altro di un unico referente che abbia il maggior numero di competenze. Non voglio essere eccessivamente presuntuoso, ma grazie anche ai nuovi strumenti noi lavoriamo proprio per essere ottimi ‘registi’.

 

Attraverso quali strategie è oggi possibile cogliere le innumerevoli opportunità offerte dal nuovo contesto mediatico?
Per un’agenzia creativa come noi, non avere il centro media vuol dire correre con una gamba sola – e confesso che questa è una delle cose che mi piacerebbe cambiassero. Orientare le scelte di investimento è parte del ruolo delle agenzie media, che hanno in mano i numeri, i dati e la facoltà di negoziazione. La separazione delle due cose non va a particolare vantaggio delle aziende, che anche in questo caso, va ricordato, sono profondamente diverse. Molte hanno subito crolli inevitabili e posso citare il caso di un’azienda del nostro gruppo, Integer, che ha una divisione che faceva eventi e che come si può immaginare è molto diversa da chi, come TBWA, fa comunicazione.

 

Si può dunque dire che la pandemia non ha imposto un ripensamento del vostro business model ma vi ha portato a spingere ancora di più sulla disruption che è poi la vostra caratteristica?
Il senso è proprio questo: la pandemia ha funzionato anche per noi come acceleratore di quelle competenze in precedenza presenti ma meno sviluppate, e infatti è aumentata in maniera significativa la percentuale di lavoro dedicata ai social e al digital.
Oggi abbiamo un board di 7 persone, un team forte e strutturato che è in grado di coprire ad altissimo livello tutte le esigenze dei clienti. Integer, per esempio, ha sviluppato nuovi prodotti e una cosa interessante è la sua penetrazione sul segmento BTOB, dove molte aziende stanno emergendo e scoprendo il loro bisogno di affermare, per esempio, il proprio purpose. Tutto questo sta generando dei risultati, non straordonari visto il periodo, ma comunque significativi. Abbiamo rivinto la gara Telepass e questo lo dobbiamo alle nostre persone, cresciute moltissimo e delle quali sono molto contento. Nel 2020 pur avendo perso il 15% di fatturato, peraltro molto concentrato su alcuni clienti, siamo riusciti in ogni caso a mantenere un minimo di marginalità, circa il 4-5%, che è ovviamente molto inferiore al nostro standard.

 

Quale la sua visione sul futuro sia dell’agenzia che del mercato?
Credo che in questo momento, se si fanno le cose giuste, siano più numerose le opportunità dei rischi. Dal mio punto di vista questo vuol dire allenare l’agenzia a seguire – come dicevamo prima – l’alto e il basso, per essere capaci di guidare strategicamente i clienti e coordinare tutte le discipline e le piattaforme che oggi ci sono. Mi scuso per l’uso forse eccessivo di questa parola, ma anche per quanto riguarda il mercato ho una visione dicotomica… Sono molto timoroso per i prossimi 6/7 mesi: abbiamo vissuto un periodo in cui fra cassa integrazione e ristori lo Stato ha immesso una quantità importante di denaro e ha bloccato i licenziamenti. Il giorno in cui i licenziamenti ripartiranno e non si aiuteranno più le imprese in maniera adeguata – peraltro visto che c’è un mercato è giusto sia così – non so che cosa succederà, e questa è la parte del rischio. Sul fronte opposto c’è il Recovery Fund: se i 209 miliardi che arriveranno saranno indirizzati nel modo giusto, con le persone giuste – ma qui ci sarebbe da stendere un velo pietoso – ci saranno opportunità anche per il nostro comparto. Se devo essere sincero, sono vagamente pessimista sul 2021 ma resto ottimista sul medio-lungo periodo: perché, torno a ripeterlo, le crisi hanno due scenari, uno che uccide e l’altro che sviluppa.

 

Tommaso Ridolfi