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Fabio Albanese (Action Brand Events): "La gestione del crisis management in tempi di Coronavirus"

Il Founder e presidente dell'agenzia, in questo intervento, sottolinea come l'Italia stia pagando conseguenze pesanti perché le notizie sull’espansione del contagio sono state, e lo sono tuttora, comunicate senza seguire le regole base della cosiddetta gestione della crisi, che spiega nel dettaglio. In sintesi: prepararsi in anticipo; avere un team al lavoro, ma un solo portavoce; comunicare tempestivamente; essere sinceri e trasparenti, non autolesionisti; comunicare pensando agli effetti globali. Indicazioni fondamentali in uno scenario mediatico nel quale tutto viene amplificato in tempo reale dalla rete e dai social. ​

Il Coronavirus sta provocando gravi conseguenze non solo sotto il profilo sanitario. Il modo in cui le notizie e le ordinanze sono state e sono comunicate, ha creato un effetto domino devastante, portando il Paese in un caos mai registrato prima, perché coinvolge tutti i cittadini e tutti i servizi e i comparti industriali.

In Italia stiamo pagando conseguenze particolarmente pesanti perché le notizie sull’espansione del contagio sono state, e lo sono tuttora, comunicate senza seguire le regole base della cosiddetta gestione della crisi (crisis management).

Dal primo allarme, tutti si sono sentiti in diritto di prendere la parola, spesso dando notizie false e contraddittorie. I politici si sono mossi in ordine sparso; i virologi e gli scienziati hanno polemizzato fra di loro (anche in diretta tv); opinionisti senza alcuna competenza sono stati protagonisti di talk show; governatori e sindaci si sono, tranne rari casi, improvvisati esperti a 360 gradi.
In questo mare in tempesta, i media hanno messo il carico da novanta, facendo da megafono a notizie incontrollate - quasi mai verificandole prima - che hanno, purtroppo, fatto il giro del mondo.

Il nostro Paese, che una volta di più lo sta dimostrando, ha una straordinaria sanità pubblica, invece di venire considerato un esempio virtuoso, è diventato il “propagatore mondiale del virus”, un centro di untori dove nessuno vuole venire e dove tutti sono pronti a metterci in quarantena. Insomma, la peste del Manzoni riscritta ai giorni nostri.

Da comunicatore so bene che non è facile intervenire sempre e comunque in maniera impeccabile: e ci sta, come si dice, che le istituzioni, le organizzazioni, le imprese, le associazioni, persino un singolo brand o personaggio siano vulnerabili nei confronti di una crisi improvvisa.

 
Tutto accade, spesso, nel giro di un minuto, e oggi questo “tutto” può essere amplificato in tempo reale dalla rete, dai social. Può, per usare un termine che in queste circostanze suona emblematicamente inquietante, diventare “virale”.
Sia chiaro: non sto dicendo che la rete e i social sbaglino per definizione, né che si debba discriminare, impedendo la democratica espressione di opinioni e di idee. Ma di fronte a una emergenza che tocca un bene indiscutibilmente primario e importante come la salute e la libertà di movimento delle persone, occorre moltissima cautela.

Mi occupo di comunicazione d’impresa da molti anni, da giornalista, da manager di multinazionali e da consulente. Ho gestito molte crisi, anche internazionali e so che alle crisi non si reagisce, non c’è più tempo quando accadono: alle crisi ci si deve preparare.
E come ci si prepara? iniziando in “tempo di pace” e lavorando a diversi scenari perché tutto sia pronto e testato quando si verificherà l’emergenza. Non sto facendo pura teoria, mi sto riferendo a ben più che a una ipotesi di studio. Una crisi epidemica non è diversa – dal punto di vista del suo manifestarsi - da altri tipi di crisi (economica, climatica, terroristica, e così via).
E anche nel caso di una epidemia sanitaria abbiamo avuto più o meno di recente altre situazioni che avrebbero dovuto insegnarci qualcosa (parlo, ovviamente, in termini di gestione della comunicazione). Mi riferisco a casi come “mucca pazza” piuttosto che alla Sars o a Ebola. Tutte situazioni che, a vario livello, diretto o indiretto, e con diversa gradazione, non diversamente dal Coronavirus, ci hanno colpiti.

Se condividiamo questa impostazione, allora io credo sia utile sapere che il crisis management, che riguardi uno Stato o un’impresa o un’organizzazione, ha le sue regole, che voglio brevemente riepilogare per capire come l’Italia ha comunicato quest’ultima emergenza.

1) PREPARARSI IN ANTICIPO
Il primo passo, come dicevo, è organizzarsi con largo anticipo. Occorre essere proattivi e fare una serie di riunioni per identificare TUTTE le potenziali crisi che potrebbero verificarsi in un’organizzazione, sia pubblica che privata. Nella preparazione vanno coinvolti tutti i potenziali enti coinvolti, e ognuno deve sapere esattamente in caso di crisi cosa fare e come comportarsi. Questi processi vanno studiati e testati, il personale va formato e vanno simulate situazioni di crisi.
Sicuramente durante la vera emergenza accadrà qualcosa di non previsto, ma almeno l’80% del lavoro sarà ben organizzato e quindi più efficace. Esattamente quello che è mancato e sta mancando in Italia, dove Governo, Regioni, Comuni e Sanità Pubblica hanno agito in ordine sparso, apparentemente senza alcun piano condiviso o forse seguendone qualcuno certamente non adeguato. Questo processo sta portando il Paese nel caos, con informazioni, decreti del presidente del consiglio, prese di posizione di governatori, lettere aperte, ordinanze di sindaci, chiusure di scuole e università, provvedimenti per pubblici esercizi ed eventi, teatri, cinema e palestre, molto diversi nei tempi, nelle aree e nella loro applicazione. Il tutto mentre funzionano metropolitane e mezzi pubblici. Un coacervo per così dire anarchico che ha generato panico e colto di sorpresa un po’ tutti, le imprese in primis ma anche i cittadini: l’assalto ai supermercati o ai treni a cui abbiamo assistito, ne è la migliore controprova.

2) AVERE UN TEAM AL LAVORO. MA UN SOLO PORTAVOCE
Nella gestione delle crisi non esiste la libertà di parola! Non è vero che chiunque, seppur a fin di bene, sia autorizzato a esprimere opinioni personali, professionali o aziendali. Può farlo solo la persona o il ristretto team designato a suo tempo durante il
lavoro di preparazione del crisis management. Il portavoce deve essere autorevole, preparato, calmo.
Può essere una figura interna o esterna, il suo compito è raccogliere tutte le informazioni e comunicarle in modo chiaro seguendo i processi prestabiliti, applicando il manuale redatto e testato in precedenza.
Per venire al caso specifico: chi è oggi questa figura di riferimento in Italia? Il Presidente del Consiglio? L’Istituto Superiore di Sanità? Il Commissario designato? I Governatori delle Regioni? La Protezione Civile? Gli scienziati (e quali)? Il Presidente della Repubblica? Non è ovviamente semplice e immediato rispondere a questa domanda. Ma, indipendentemente da chi debba assumere questo ruolo (e assumersi questa responsabilità) è bene che sia una e una sola persona.


3) COMUNICARE TEMPESTIVAMENTE
Le prime ore sono le più critiche nella gestione di una crisi e occorre dare subito il senso di avere il controllo della situazione, informando con chiarezza e rassicurando l’opinione pubblica e i media (che di fatto intermediano l’informazione proprio nei confronti dell’opinione pubblica) sulla attendibilità e professionalità della gestione.

Molto importante è anche correggere subito la disinformazione, restare in silenzio crea solo dubbi e finisce col validare involontariamente le fake news.
In Italia, è mancata una concertazione immediata con gli editori e i direttori delle principali testate giornalistiche e con i rappresentanti dell’economia, passaggio che avrebbe permesso di concertare una visione condivisa, nei tempi e nelle modalità.
E invece ognuno si è mosso in ordine sparso; abbiamo assistito alla performance di una sorta di drammatica “armata Brancaleone” che ha persino visto ricorsi al TAR fra le istituzioni e discussioni paradossali fra virologi in diretta tv (tutti ricordano la
polemica tra Roberto Burioni che ha “bollato” la sua collega Gismondi in modo spregiativo chiamandola “la signora del Sacco”).
Senza contare sindaci e VIP che facevano a gara per farsi immortalare a pranzo in ristoranti cinesi, travisando così completamente la natura della crisi. Che non aveva alcun risvolto di natura xenofoba o razzista, bensì – come si è presto dimostrato – medica e clinica. E su questo vorrei però essere chiaro: non sto condannando affatto questo atteggiamento di inclusione e di amicizia per una comunità (quella cinese nella fattispecie), anzi. Ma dimostra una volta di più che una buona preparazione e una
concertazione avrebbero da subito evidenziato che il tema era di natura ben diversa!

4) ESSERE SINCERI E TRASPARENTI. NON AUTOLESIONISTI
La sincerità paga sempre, anche, e soprattutto, durante le crisi; occorre mantenere un comportamento altamente etico. Nello stesso tempo bisogna evitare di esagerare, finendo, per troppa onestà, nell’autolesionismo che può
drammaticamente peggiorare la crisi.
L’Italia, dopo un primo momento in cui tutto ci sembrava sotto controllo e con pochissimi casi accertati di contagio, ha cambiato improvvisamente marcia e - a differenza di molti altri Paesi -ha deciso in poche ore di comunicare il numero dei positivi al virus invece dei contagiati certi, cosa che solo l’Istituto Superiore di Sanità deve e può legittimamente determinare.
Questa informazione fin troppo trasparente ci ha fatto schizzare ai primi posti fra i Paesi con il più alto rischio di contagio, non pensando all’impatto che questo avrebbe generato sull’economia delle nostre imprese e sul turismo.
Ancora oggi, grazie alle opinioni totalmente divergenti dei virologi, non abbiamo capito se stiamo affrontando un’influenza con un rischio di mortalità più alto (la tradizionale influenza in Italia provoca circa 8.500 decessi all’anno) o se il Coronavirus sia molto
più grave, con una mortalità ben più elevata.
E le difficoltà che stiamo attraversando, comprese quelle economiche, sono sotto gli occhi di tutti. Mi domando, chi ha ad oggi capito i veri limiti della chiusura della Lombardia e di 14 provincie, con 16,7 milioni di cittadini coinvolti e che possono varcarne i confini “solo per comprovate esigenze lavorative o per emergenze e motivi di salute”. E chi le decide queste “comprovate esigenze lavorative”? chi e come le  “certifica”? Mistero, che ancora una volta genera confusione, ritardi, danni organizzativi ed economici.


5) COMUNICARE PENSANDO AGLI EFFETTI GLOBALI
C’è stata una grave sottovalutazione degli effetti che una comunicazione caotica avrebbe avuto nel resto del mondo. L’Italia, che per prima aveva bloccato i voli da e per la Cina, si trova adesso a vedere grandi compagnie come American Airlines e Lufthansa cancellare i voli per l’Italia, e altre si stanno adeguando velocemente. Le aziende estere hanno applicato protocolli rigidi e vietano contatti non solo con chi proviene dalle zone rosse, ma da tutta Italia. Un danno anche questo incalcolabile, perché vieta sostanzialmente ai manager italiani di recarsi all’estero e ai compratori stranieri di venire in Italia. Stanno venendo meno anche le scorte (magazzini) di alcune aziende perché ci sono trasportatori non vogliono viaggiare verso il nord Italia. Le scuole e le università chiuse sono certamente un buon sistema per ridurre il contagio, ma fino a quando si protrarrà questa serrata? Fino all’ultimo dei contagiati? E come si recupereranno le lezioni perse, le sessioni di laurea rimandate, gli esami di fine anno che si avvicinano?

Anche in questo caso il ritardo dello smart working e della scuola attraverso il virtual learning è pluridecennale. Alcune aziende e università stanno cercando di reagire, seppur tardivamente. Anche qualche città, fra cui Milano, sta cercando di riportare fiducia. Il sindaco Sala è un manager competente e concreto e sta facendo il massimo per rassicurare e infondere ottimismo, ma anche lui può fare poco se decreti legge e ordinanze regionali lo costringono a spegnere le luci di una città che vive di lavoro e di eventi.
A nessuno si può chiedere di prevedere il futuro. Di dirci oggi quando potranno riaprire scuole, stadi, musei, e così via. Ed è certo che nessuno può fermare senza misure straordinarie una pandemia così aggressiva (mentre, questo va detto ancora una volta,
ospedali, medici, infermieri e scienziati stanno facendo miracoli per salvare le persone
colpite).
Alla comunicazione non si può chiedere, ovviamente, di risolvere i problemi sanitari. Ma le si può chiedere un contributo importante per contenere alcune conseguenze collaterali, anche le più importanti, come quelle economiche, che una epidemia può
provocare. Nel caso specifico, è successo l’opposto. Perché l’“infodemia”, cioè la pandemia dell’informazione che si è aggiunta a quella sanitaria, ha peggiorato ancor di più la situazione, concorrendo, tra l’altro, a creare danni incalcolabili a un Paese che già da diversi anni si trova in una difficoltà economica costante. E che, per i motivi che ho detto, non potrà che peggiorare, mettendo davvero a dura prova ogni nostra resistenza. O, come si usa dire oggi, resilienza.
Si poteva evitare questa “infodemia”? Io credo di sì.
E torno, in conclusione, alla gestione della crisi.Così come già fanno molte aziende (anche se non tutte per la verità), il Paese doveva dotarsi di un piano di gestione della crisi con molto anticipo, perché, lo ripeto, una crisi sanitaria straordinaria era possibile tanto quanto un attacco terroristico.
La formazione del personale e dei dirigenti doveva essere attuata per tempo, le procedure dovevano essere chiare ed era necessario fare delle simulazioni, come fa la Protezione Civile per le catastrofi naturali. La gestione mediatica doveva essere concertata, molto ben organizzata e gestita da professionisti esperti.
Ma per fare tutto questo occorre “fare sistema”, come fanno le aziende private e pubbliche più evolute. Forse il problema è proprio questo, l’Italia storicamente non è mai riuscita a fare sistema, ognuno va avanti da solo, con le proprie convinzioni e persino i propri pregiudizi.

Peccato che a pagarne le conseguenze sia l’intero Paese, con diverse aziende e istituzioni ancora troppo provinciali per capire che la comunicazione oggi non è un fatto locale ma globale e che non è un “accessorio” da attivare o spegnere a seconda dei momenti e dei budget, bensì una risorsa primaria. Da affidare a dei professionisti.
Qualcuno ha detto: “se pensi che un professionista ti costi troppo, è perché non sai quanto ti costerà un dilettante”. Ecco, mi sembra che mai come in questa gestione della crisi del Coronavirus, i dilettanti abbiano finora avuto la meglio. E i costi già oggi sono sotto gli occhi di tutti.

 

Fabio Albanese

Founder e presidente di Action Brand Events
Consulente di Comunicazione e Crisis Management