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Mizioblog. Una volta qui era tutto campagne

In un lungo post pubblicato sul suo blog Mizio Ratti, founder e partner di Enfants Terribles e della digital agency Hallelujah, dice la sua sullo stato dell’arte dell'evoluzione del sistema delle agenzie e della comunicazione, inserendosi nel dibattito aperto lo scorso 29 gennaio dall'editoriale di Salvatore Sagone, presidente ADC Group. Al centro della riflessione del noto professionista, la perdita di valore della consulenza delle agenzie di pubblicità, il reale significato dei premi, il ricambio ai vertici creativi di alcune delle maggiori agenzie del mercato, il peso crescente delle società di consulenza, così come la rivoluzione data driven nella creatività e nelle professioni creative. Arrivando a concludere che "lo strumento più importante del mestiere è sempre e solo uno: l’emozione".

Da settimane, più precisamente da quando ADVexpress ha aperto la discussione con l’Editoriale del direttore Salvatore Sagone (29 gennaio, leggi news), si sta svolgendo un interessante dibattito sull’evoluzione del sistema delle agenzie e della comunicazione. Abbiamo raccolto una grande quantità di interventi (scritti e in video) che ci fanno capire quanto questa evoluzione sia complessa e per molti aspetti ancora imprevedibile.

In un lungo post pubblicato sul suo blog Mizio Ratti, founder e partner di Enfants Terribles e della digital agency Hallelujah dice la sua sullo stato dell’arte, riflettendo sui temi più attuali e 'caldi' per l'industry della comunicazione, come la perdita di valore della consulenza delle agenzie di pubblicità, il reale significato dei premi, il ricambio ai vertici creativi di alcune delle maggiori agenzie del mercato, il peso crescente delle società di consulenza, così come la rivoluzione data driven nella creatività e nelle professioni creative.

 

Ecco di seguito il post

 

Negli ultimi due anni ho tenuto un profilo social molto basso: ho interagito poco e ho scritto ancora di meno. Un paio di settimane fa, dopo molto tempo, ho condiviso un contenuto che ha scatenato reazioni e commenti, soprattutto di persone che non si trovavano d’accordo con me. Sono giunto a una conclusione: o vi manco davvero tanto, oppure il contenuto che ho condiviso è rilevante. Qualunque sia la verità, ho deciso di violentare la mia innata indolenza e scrivere questo post.

L’articolo dibattuto è della testata online key4biz e raccoglie un’intervista ad Alberto Contri dal titolo “Il perché del lento suicidio delle agenzie di pubblicità”. Alberto Contri non è una persona qualsiasi. Qui potete leggere la sua biografia, ma quello che ci interessa sapere di lui è che è entrato in pubblicità nel 1966 ed è stato presidente Assap (quella che oggi è diventata Assocom) dal 1993 al 1997. Insomma, è uno che ha vissuto tutte le evoluzioni del nostro mestiere, dalla golden age fino ai giorni nostri.

 

L’incipit è questo.
“Quando ho iniziato a lavorare in pubblicità a inizio anni Settanta,” dice Alberto Contri, “le agenzie venivano remunerate con il 15% sull’investimento media. Quando le campagne avevano successo e il budget cresceva, crescevano di conseguenza i profitti dell’agenzia, senza un corrispondente aumento dei costi, il che era semplicemente una manna. Così in quegli anni d’oro le agenzie fecero grandi affari, includendo la consulenza creativa e strategica nel fee complessivo per l’acquisto mezzi. Da un certo punto in poi i clienti hanno cominciato a voler ridurre quella percentuale, la concorrenza è aumentata, e sempre più spesso le agenzie hanno offerto la creatività nel fee dell’acquisto mezzi”.

Alberto Contri, Pubblicità Progresso

 

Non c’è dubbio che quello è stato il breaking point della pubblicità italiana, quando cioè i manager, con poca lungimiranza e in nome del profitto immediato, hanno iniziato a regalare creatività e strategia. Risultato? Agli occhi dei clienti la consulenza delle agenzie di pubblicità ha perso di valore. Ma tanto c’erano ancora i soldi del media a reggere su le baracche delle agenzie a servizio completo.

Piccolo esempio.
Nel 1996, quando ho iniziato l’avventura Enfants Terribles, ogni volta che presentavo un preventivo i clienti mi dicevano: “Ma le altre agenzie la creatività me la regalano”.
E io rispondevo: “può darsi, ma noi facciamo solo quella, cosa volete pagarci sennò?”
È stato grazie al fatto di aver tenuto duro in quegli anni che abbiamo sviluppato un nostro modello imprenditoriale che ci ha permesso di sopravvivere durante questa lunga crisi e diventare una delle agenzie pubblicitarie indipendenti più longeve in Italia. E la stessa cosa hanno fatto altre agenzie indipendenti, tutte quelle che sono partite senza un reparto media, costruendo modelli basati esclusivamente sulla remunerazione del lavoro creativo.

Intorno agli anni duemila i network internazionali hanno fatto un secondo errore, a posteriori ancora più dannoso e demenziale del primo: hanno fatto uscire il reparto media dalle agenzie, scorporando quindi la cassaforte di famiglia e dando vita ai centri media.
Ignoro i motivi esatti di questa scelta, anche se presumo sia stata fatta ancora una volta in ottica di profitto. Purtroppo le grandi agenzie si sono ritrovate costrette a far pagare una cosa che fino a poco tempo prima regalavano, la consulenza creativa e strategica appunto.
E non è stato affatto facile.
Anche perché ogni tre mesi i manager italiani dovevano rispondere ai network dei risultati della country. E, beata lungimiranza, pur di dimostrare ai capi di Londra, Parigi o New York che erano macchine da new business, hanno iniziato a farsi una guerra senza quartiere sui prezzi, rassicurati dal fatto che tanto i loro costi fissi (o almeno una parte) erano coperti dai contratti internazionali.
Molti pensano che il dumping in Italia sia iniziato per colpa delle piccole agenzie, ma nulla di più sbagliato: sono state le filiali dei network.

In quel periodo la mia bussola era un listino prezzi pubblicato nel 1994 proprio dall’Assap di Alberto Contri. I clienti guardavano i preventivi che facevo seguendo quel listino di più di sei anni prima e mi facevano notare che ero caro.
Quasi vent’anni fa.
Il paradosso è che se provassi oggi ad applicare quelle tariffe mi scambierebbero per pazzo.
Quel listino era nato per supplire al fatto che la creatività non si era mai fatta pagare prima di allora. Servì a poco, e servirebbe ancora meno oggi.
Qui potete trovarne una piccola parte, pubblicata dal blog dell’ADCI.

I primi licenziamenti in agenzia sono arrivati subito dopo la crisi della prima Guerra del Golfo, intorno al 1991 (prima la pubblicità era un settore florido), ma quelli più sanguinosi sono partiti all’inizio di questo secolo.
D’altronde, dato lo scenario che vi ho descritto, cos’altro poteva succedere?
Se ti fai pagare poco per il lavoro, di conseguenza puoi pagare anche poco il lavoro.
Così, per continuare a generare profitti, i network hanno tagliato i costi del personale.
Vado a memoria, ma mi sembra che il defunto e discusso blog Bad Avenue pubblicò dei dati che hanno dimostrato come solo intorno alla prima decade degli anni duemila il settore della pubblicità abbia perso più del 30% della forza lavoro.

Chi era quel 30%? si domanda Ratti
Semplice: era la cosiddetta classe media della nostra professione.
Quella percentuale non era costituita dai vertici, e neppure dai giovani che costavano poco; quel 30% erano le persone che, data la loro esperienza, guadagnavano bene pur non ricoprendo ruoli manageriali. Purtroppo erano pure quelli che trasmettevano ai più giovani il difficile (sì, perché è difficile) mestiere della comunicazione.
Scomparsi loro, scomparve il prezioso know-how, almeno nelle grandi agenzie.
Da allora le grandi agenzie si sono organizzate con poche persone al vertice e un esercito di post-stagisti alla base. E attenzione: l’idea sarebbe stata encomiabile se avesse significato ricambio generazionale, ma quella schiera di giovani è stata messa lì perché da allora il sistema delle agenzie supporta solo una forza lavoro sottopagata.

Perché tanti ragazzi hanno accettato anni di stage, e poi contratti a progetto e poi ancora Partite IVA a ciclo continuo ricevendo in cambio solo prospettive professionali molto limitate? Perché hanno accettato remunerazioni da fame in cambio di notti e di fine settimana passati in agenzia?
La risposta è semplice: non hanno avuto scelta.
In più molte agenzie di grido hanno fatto leva sulla loro vanità: “vieni da noi, ti spacchi il culo, ma fai progetti belli e vinci premi. Poi quando non ce la fai più, sei esausto e ti rendi conto che non hai più una vita privata, cambi agenzia! Nel frattempo ti sei fatto un bel portfolio e un ottimo palmares di premi… troverai sicuramente un posto dove ti pagheranno bene…” 
Peccato che un posto dove ti pagano bene non esista più.
Come ho spiegato, il modello delle grandi agenzie oggi può reggersi in piedi solo grazie a una base di forza lavoro che viene pagata poco ma che fa in cambio tante ore al giorno.

 

FalòVAnità

 

 

Ratti riflette poi sui PREMI, da sempre fondamentali per la reputazione e la crescita della qualità dei progetti creativi.

Ho accennato ai premi, un argomento piuttosto controverso.
Quando sono nati servivano come stimolo alla qualità del lavoro, per spronare i pubblicitari a dare il meglio nel quotidiano, ma poi hanno preso una deriva tossica che negli anni li ha trasformati nel più grande allucinogeno della categoria: il miraggio dei premi non ha permesso ai creativi di accorgersi che gli avevano tolto tutto, pure l’acqua.
E questo non solo in Italia.
Cavalcando questa tendenza di premiare tutto e tutti, anche il Festival di Cannes ha moltiplicato anno dopo anno le sezioni e le categorie, e di conseguenza i profitti, finché non è diventato un carrozzone insostenibile anche per i grandi network. I costi per le iscrizioni dei progetti e per le registrazioni dei delegati sono diventati così esosi che l’estate scorsa il CEO di WPP, Martin Sorrell, ha dichiarato di aver mandato ai Cannes Lions la metà dei delegati rispetto agli anni prima: 500 anziché 1000. (Leggi a riguardo la news su advexpress, ndr).
Arthur Sadoun, nuovo CEO di Publicis, è stato ancora più drastico dichiarando che le agenzie del suo gruppo avrebbero rinunciato alla partecipazione ai Cannes Lions 2018. (Leggi news su advexpress, ndr).
Queste pesanti prese di posizione hanno dato risultati immediati: Ascential, la società che organizza la kermesse, ha dichiarato che la prossima edizione sarà più “snella e creativa”. (Leggi news su ADVexpress, ndr)
Guarda un po’!
Bisogna inoltre aggiungere che un Leone vinto a Cannes una volta poteva lanciare una carriera o spostare budget importanti, ma oggi non più, nemmeno all’estero dove i Leoni hanno sempre avuto un peso specifico maggiore.
David Droga è il Maradona della pubblicità mondiale, ha vinto più di 200 Leoni e la scorsa estate addirittura il Leone di San Marco, cioè il premio alla carriera, eppure anche la sua agenzia sta soffrendo parecchio la congiuntura attuale: Droga5 New York ha appena lasciato a casa il 5% dei dipendenti.

 

La corsa al premio a tutti i costi ha portato altri effetti negativi nel nostro settore, riflette Ratti, ricordando il fenomeno delle campagne fake.


Molti creativi hanno una lista infinita di premi ma nemmeno una campagna in portfolio che si ricordi. Nel peggiore dei casi, nemmeno una campagna vera.
Il fenomeno fake è riesploso nelle agenzie italiane proprio intorno agli anni duemila, sia per supplire alla difficoltà di sviluppare output di qualità su progetti veri, sia per distrarre dalla situazione contrattuale in agenzia.
Pochissimi direttori creativi hanno combattuto i fake, mentre gli altri davano sempre la solita giustificazione: “Io lo faccio solo per i mei creativi… poveri ragazzi, già guadagnano poco, che male c’è a fargli vincere almeno qualche premietto?”
Se tutti gli sforzi fatti per produrre fake fossero confluiti nel tentativo di migliorare la condizione economica dei creativi non sarebbe stato meglio?
La visione completa sui fake è ancora più fastidiosa da analizzare: ci sono un paio di aggravanti. La prima è che alcuni direttori creativi avevano bonus collegati al numero di premi. Di conseguenza la produzione industriale di fake nell’advertising nostrano non era solo generosità gratuita nei confronti dei giovani creativi. La seconda, e per me ancora più grave della prima, è che molti direttori creativi hanno contribuito a disperdere l’energia creativa migliore sui progetti finti piuttosto che accrescere la determinazione e la qualità sui progetti più ostici, svezzando così generazioni di creativi fragili ed egocentrici. Se vogliamo accusare di qualcosa i direttori creativi, accusiamoli di questo: non si sono battuti per il miglioramento della condizione economica dei collaboratori, non hanno insegnato il mestiere, ma soprattutto non hanno trasmesso l’importanza di applicarsi sui progetti reali e complessi.

Fino all’inizio di quest’anno, però, i tagli del settore non li avevano mai toccati, loro che da sempre sono considerati come quelli che fanno la differenza, le star che affascinano i clienti.
Anche se, a dire il vero, un campanello d’allarme si era acceso il 9 novembre del 2010 quando, con la solita velina ipocrita, JWT aveva annunciato che Pietro Maestri lasciava l’agenzia.
L’ennesimo breaking point: un segnale timido ma eloquente che preannunciava il fatto che le agenzie internazionali non avrebbero risparmiato nemmeno i direttori creativi. L’anticipazione di quello che poi è successo all’inizio di quest’anno con l’uscita di alcuni fra i più importanti rimasti in circolazione. (Leggi a riguardo la news su ADVexpress, ndr)

 

Al di là dell’aspetto umano, queste fuoriuscite sono state un bene o un male per l’intero ambiente? si chiede il manager e creativo. 


Per molte persone che ho sentito, e per alcuni fra quelli che hanno commentato il mio post, è stato senza dubbio un bene: largo alla gioventù e largo al digital!
Non mi stupisce ascoltare o leggere queste affermazioni: quando un grande cade, i piccoli gioiscono sempre. Fa parte della natura umana: è difficile avere pietà di quello che guadagna 10 volte più di te. Soprattutto se, come abbiamo visto, quello più grande di te appartiene a una categoria che ha coltivato i propri interessi e fatto cazzate in serie. Però, almeno a mio parere, questa è una visione superficiale della cosa, specie se quello che guadagna 10 volte più di te viene sostituito da uno che guadagna solo 2 o 3 volte più di te. In tal caso la cosa diventa un problema per tutti. Significa che, anche se sei un giovane pieno di talento e di determinazione, quando un giorno arriverai al vertice guadagnerai solo il doppio di quella miseria che prendi adesso. Anzi, dati i tempi, è molto probabile che guadagnerai solo una volta e mezza di più.
C’è un altro aspetto da valutare: se le grandi agenzie eliminano coloro che dovrebbero garantire la differenza creativa con le altre agenzie, significa che nella creatività non ci credono più e che, dopo che i clienti lo hanno fatto già da tempo, hanno retrocesso la professione creativa a mera commodity.

 

Dagli effetti alla causa, Ratti ragiona sull'origine dei ricambi ai vertici di alcune delle principali agenzie del settore.

Chi afferma che questi licenziamenti sono la conseguenza diretta dell’avvento del digital, perché molti direttori creativi old-school non sono competenti sui new media, a mio parere non ha ben chiara la situazione complessiva. Il digital ha influito solo in piccola parte: questi tagli sono l’estrema conseguenza di un modello insostenibile impostato tanto tempo fa.

Martin Sorrell

 
Alla fine di quest’estate WPP ha perso il 10% in borsa e lo stesso Martin Sorrell ha appena affermato che “2017 was not a pretty year for us”. (Leggi a riguardo la news su ADVexpress, ndr)
Da noi il mercato pubblicitario si sta contraendo ancora più velocemente, di ben 4 miliardi di euro solo negli anni dal 2008 al 2015: da 10 miliardi di euro a 6 miliardi di euro.

 

In uno scenario del genere lo sbarco delle consultancies nel nostro settore è una benedizione, dichiara Ratti.

 

 Dopo tutti i danni che hanno fatto i network pubblicitari in Italia, Accenture e compagnia bella non possono certo fare di peggio: hanno i soldi e la volontà per fare investimenti importanti. Inoltre, essendo abituate da sempre a farsi pagare la consulenza, potrebbero accollarsi l’onere di rieducare i clienti, portando benefici a tutta la categoria, soprattutto dal punto di vista della remunerazione.
Questi sono i pro, ma c’è anche un contro.
O almeno c’è un grande punto interrogativo, in quanto le consultancies non hanno cultura di comunicazione. Tant’è che i progetti di comunicazione che hanno firmato, o meglio che non hanno ancora prodotto, al momento dimostrano questa loro incapacità. Bisogna attendere per scoprire se continueranno a usare la comunicazione in maniera tattica, da powerpointificio per entrare nelle aziende e portare a casa i digital business migliori, oppure si impegneranno a farla crescere e farla diventare una unit strategica anche per loro. Il dubbio nasce da questa riflessione: perché vogliono entrare in un settore che è in sofferenza e produce margini molto ridotti rispetto a quelli in cui sono già da tempo? L’impressione è che presto avremo una risposta. Ma non basterà scoprire che faranno incetta di copy e art director, creando magari qualche sorta di mega reparto creativo. Bisognerà guardare piuttosto alla tipologia di progetti che svilupperanno e al tipo di figura che sceglieranno per dirigerli. Non mi stupirei se in queste settimane nelle loro stanze stesse girando il nome di uno dei direttori creativi appena fuoriusciti dalle agenzie. È indubbio che hanno bisogno di una figura di alto profilo per risultare credibili sul mercato, però come la sfrutteranno? Gli daranno un vero spazio di manovra oppure gli metteranno in testa un cappello buffo da creativo per portarlo in giro per clienti come una scimmia ammaestrata?

 

I veri disruptor: le agenzie di consulenza o i big del web?

 

Presto riusciremo a chiarirci molti dubbi sull’impatto e sulla strategia delle consultancies, nel frattempo abbiamo la risposta a chi si chiede se proprio loro sono i nuovi disruptor del settore. Riccardo Garavaglia, in uno dei post più lucidi e originali che abbia letto ultimamente, spiega perché non lo sono affatto: i disruptor sono tali in quanto rivoluzionano il mercato arrivando da fuori e, nel caso della pubblicità, i disruptor sono Google e Facebok. Afferma inoltre che, dato il peso di questi due giganti, è inutile prendersela con dei vecchi creativi se anziché cercare di salvare la pubblicità mondiale hanno rivisto al ribasso le loro ambizioni, coltivando sogni alternativi di “agriturismi” o “librerie di nicchia”.
La sua conclusione è altrettanto interessante.
In ogni mercato i disruptor hanno successo perché migliorano il prodotto e la vita delle persone. Lo ha fatto Apple nella telefonia mobile con lo smartphone, lo ha fatto Netflix nella televisione, lo ha fatto Spotify nella musica… Solo nella comunicazione non è accaduto: Google e Facebook hanno rivoluzionato la pubblicità peggiorando l’esperienza utente, rendendola semmai più invadente e pervasiva. Perché prima la pubblicità ti arrivava sul televisore, che restava pur sempre a un paio di metri di distanza, ora invece ti perseguita 24 ore al giorno sul telefono, ad appena una ventina di centimetri dal tuo naso. Prima aveva il pudore e l’accortezza di provare a intrattenerti, mentre adesso si è trasformata in una marmellata prepotente di call to action.

I nipoti dei nostri millennials, nei loro e-book di storia, descriveranno la fase attuale come la Prima Grande Rivoluzione Digitale. E io reputo eccitante il fatto di vivere una fase così importante per la razza umana: amo l’innovazione e, di conseguenza, sono favorevole all’evoluzione e allergico allo status quo. Per questo il digital mi affascina fin dai suoi albori. Allo stesso tempo, però, sono consapevole che ogni rivoluzione porta con sé molte vittime e una serie di conseguenze negative.

 

La rivoluzione digitale e i suoi effetti

 

La prima di queste conseguenze è la marginalità.
Chi ha un minimo di esperienza nella gestione di un’agenzia sa che il digital ha margini nettamente inferiori rispetto al vecchio advertising, ma richiede maggiori sforzi imprenditoriali, sia nel numero degli addetti sia nella profondità della loro specializzazione. La seconda conseguenza è che, sia per la tipologia dei suoi formati sia per la rigidità delle piattaforme in cui si sviluppa, il digital fa fatica a produrre progetti di comunicazione davvero interessanti per l’utente.
Infine c’è da sfatare il mito secondo il quale il digital rivoluzionerà il modo di comunicare. Non è affatto così: lo cambierà un poco, ma non completamente.
Perché anche se le persone staranno sempre di più davanti a uno smartphone piuttosto che a un televisore, i meccanismi che inducono alla persuasione rimarranno sempre gli stessi, e saranno sempre di natura emotiva.
I gattini rimarranno sempre gattini, sia che li si scrolli sul nuovissimo iPhone X sia che li si guardi su un vecchio televisore del 1986. Barilla, spot 'gattino'.

 

Eppure uno degli ultimi slogan è Data Driven.


Secondo molti esperti saranno i dati a cambiare il modo di comunicare. Sapremo tutto di come si comportano le persone e agiremo di conseguenza: A/B Test su A/B Test in una specie di Black Mirror portato alle estreme conseguenze.
A parte il fatto che Data Driven è solo una delle tante formulette con cui abbiamo descritto l’avvento dell’ultimissimo modello di agenzia negli ultimi cinquant’anni (si è parlato di Agenzie a Servizio Completo, poi di Comunicazione a 360°, e ancora Comunicazione Integrata o Cross-mediale), la sua applicazione totale è utopistica, come utopistiche sono le cose che ambiscono alla perfezione ignorando l’aspetto irrazionale dell’animo umano. Nonostante questo, l’idea di poter misurare tutto e controllare tutto è stato da sempre un sogno del marketing, oltre che una nevrosi descritta bene nei migliori manuali di psicologia.

Uno dei motivi per cui non sarà mai possibile misurare tutto è il tema sempre più importante e delicato della privacy, sottolinea Ratti.  Mentre la ragione per cui non si possono controllare le persone è che, come ho accennato sopra, per fortuna il comportamento umano è spinto da motivazioni inconsce e irrazionali, difficilmente riconducibili a freddi numeri.

Ecco la conclusione a cui giunge Ratti: possiamo raccogliere milioni di dati, ma se li faremo sintetizzare da ingegneri autistici o da nerd con la sensibilità emotiva di un primate appena sceso da un albero, come risultati avremo delle banane. Magari banane in 3D, ma pur sempre banane.
Come spiega Alberto Contri meglio di me: “… i dati sono in realtà delle commodities, almeno se non vengono interpretati e gestiti da chi sa costruire messaggi interessanti, toccanti e convincenti: cosa che solo degli ottimi e sperimentati creativi sanno fare”. (Leggi anche l'intervento di Alberto Contri su ADVexpress, ndr).

 

E, dato che parliamo di dati, aggiunge Ratti, sfatiamo anche il falso mito sulla completezza e sull’affidabilità del digital. Chi ha provato almeno una volta a incrociare gli insights di una campagna di Facebook con le statistiche di Google della landing page su cui atterra quella stessa campagna, sa che non è così. Non esattamente così. E chi ha monitorato il numero di views di una qualunque campagna video su Facebook, sa che al social network bastano 3 secondi di visione per conteggiarla come una visualizzazione completa.
Potete anche mettere in discussione quello che scrivo io, ma gli stessi identici concetti sono stati espressi da persone molto più autorevoli e influenti di me.
Keith Weed, CMO di Unilever, in una recente intervista ad Adweek ha individuato nelle 3 V il più grande problema del digital marketing: Viewability, Verification e Value.
Marc Pritchard, CMO di P&G, è stato ancora più duro e diretto invocando la creazione di un ente parziale che certifichi i dati del digital marketing. Nel frattempo, l’anno scorso ha spostato 200 milioni di dollari di investimenti dal digital alla tv e all’audio e all’e-commerce, riducendo un buon 20% di sprechi e ottenendo un 10% di reach in più.

Marc Pritchard, P&G

Quest’ultima notizia non mi stupisce affatto afferma il founder di Enfants Terribles.


Da più di dieci anni ho la fortuna di lavorare per P&G, una multinazionale che ha basato il suo successo anche sulla continua evoluzione del marketing, e sono testimone di molti di questi cambiamenti, compreso quello di cui Pritchard parla.
In questi anni ho avuto la possibilità di seguire tutte le evoluzioni social, ad esempio. Ho vissuto il periodo in cui le pagine facevano fan acquisition, prima del primo grande cambio dell’algoritmo di Facebook, poi quello in cui i brand pubblicavano pochi post ma li promuovevano tutti. Per ovvie ragioni non parlerò della fase attuale, ma le ultime evidenze dimostrano che l’indice di conversione dei social network non è così performante come si vuole far credere, e chi ne ha la possibilità è tornato a privilegiare la televisione, che ha una soglia d’ingresso molto più alta ma un costo contatto più vantaggioso.

 

Digital versus emozione

Non ce l’ho con il digital, anzi, lo vivo con passione.
Ce l’ho semmai con chi, in nome del digital, prende posizioni dogmatiche e opportunistiche. Per quanto mi riguarda la verità è indiscutibile: le trasformazioni introdotte dal digital hanno cambiato in minima parte la mia professione. Il fine ultimo di un creativo resta ancora quello di catturare l’attenzione delle persone e raccontare al meglio un prodotto o un servizio, trasformando un buon brand in un brand affascinante.
E lo strumento più importante del mestiere è sempre e solo uno: l’emozione.
Era così quando c’era solo la stampa, ha continuato a essere così quando è arrivata la radio e poi la televisione, continuerà a essere così anche in futuro.
Perché internet, come tutti quelli che l’hanno preceduto, è solo un mezzo.
E i mezzi si imparano a usare, mentre la sensibilità e la capacità di suscitare emozioni sono doti rare in un essere umano. Il problema è che abbiamo passato troppo tempo a giudicare i creativi a seconda di come si vestivano e di quanti premi collezionavano sulle mensole, forse li abbiamo scambiati per parrucchieri. Ma i creativi bravi sono tutt’altro che presuntuosi. La presunzione uccide l’intelligenza e restringe l’apertura mentale. Mentre i creativi migliori che ho conosciuto non hanno mai smesso di imparare, né di assorbire concetti, informazioni e sensazioni. La loro qualità più spiccata è sempre stata la curiosità.
E non credete che per gente così, assorbire un po’ di tecnica sia la cosa più facile e stimolante al mondo? Certo una volta a un creativo forse bastava andare al cinema, leggere un buon libro, vedere belle mostre, mentre il digital ha aperto scenari nuovi e infiniti, ma per un creativo vero questi non saranno mai ostacoli, semmai opportunità incredibili.

E arriviamo alla conclusione.
Interessante il Data Driven, affascinante il Digital Marketing, bella tutta questa New Wave di comunicazione, ma attenti a illudersi che siano cambiati i meccanismi di persuasione. Attenti a non sottovalutare l’importanza di una buona creatività e di una buona strategia. Attenti a non deprezzare la consulenza anche nel digital e ripetere gli errori fatti dalle agenzie di advertising in passato.
La storia ci insegna che razionale e irrazionale sono da sempre in competizione fra loro, che a una fase di Illuminismo segue sempre una fase di Romanticismo.
La speranza è che queste due istanze un giorno si incontrino e imparino a convivere, ma non è ancora successo. E se oggi siamo in una fase razionale, un periodo in cui sembra che i dati possano risolvere ogni cosa, tornerà il momento in cui si ribalterà tutto.


Ho due notizie per i creativi pubblicitari.
La cattiva notizia è che il marketing e i network internazionali cercheranno di eliminarci tutti, in nome della perfezione, del controllo, della razionalità assoluta e dei profitti a ogni costo.
La buona notizia è che non ce la faranno mai: avranno sempre bisogno del nostro talento, delle nostre intuizioni e della nostra capacità di emozionarci ed emozionare gli altri. Questo, almeno finché tutta la popolazione mondiale non verrà sostituita da miliardi di chatbot.