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Programmatic

Festival Of Media Global/4. Tutta la verità e nient’altro che la verità sul Programmatic

Roma. Sia lo speech di Sacha Berlik, Managing Director EMEA di The Trading Desk, sia la tavola rotonda successiva cui hanno partecipato aziende, agenzie media, consulenti e piattaforme specializzate (sia lato vendita che acquisto) sono state dedicate ai numerosi annunci e casi di aziende che hanno deciso di seguire la strada del ‘fai da te’ nel Programmatic. A emergere sono stati molti dei limiti e dei rischi – a volte reali, spesso solamente percepiti – di cui il processo di automazione della compravendita di spazi pubblicitari ancora soffre nonostante la sua crescita esponenziale.

(Dal nostro inviato Tommaso Ridolfi). “Per il programmatic non si può più parlare di ‘disruption’: è un fenomeno mainstream ed è qui per restare – ha esordito Sacha Berlik (nella foto),–. Sento sempre parlare di ciò che potrà fare o diventare in futuro, ma credo che ancora non tutti abbiano capito o conoscano ciò che il programmatic può fare oggi, adesso. Per esempio, sia dal punto di vista dei prezzi, sia da quello della brand safety, la trasparenza di cui si discute molto è già una realtà: nel primo caso non c’è trasparenza quando lo stesso operatore si trova nella posizione di dover ottimizzare i costi per l’advertiser e i ricavi dell’editore, ma quando si parla di piattaforme indipendenti la trasparenza è un dato di fatto; nel secondo caso, non c’è trasparenza quando si parla di walled gardens, che però è non solo possibile ma totalmente garantita se ci si affida a piattaforme dedicate ai contenuti premium”.

Un’altra area di cui si parla ‘al futuro’ ma che già consente risultati di rilievo è quella dell’audio: “Si dice che ancora non abbia una reach e una ‘scalabilità’ sufficiente, ma oltre 500 milioni di persone ascoltano quotidianamente audio digitale attraverso piattaforme come Spotify o Soundcloud, solo per citare le più note. Persone che le marche possono raggiungere in qualsiasi luogo o momento, mentre sono al lavoro in ufficio, in cucina a preparare il pranzo o in movimento per la città, sugli autobus o nelle metropolitane”.

Enormi passi avanti sono stati fatti anche dal punto di vista della misurabilità e della misurazione on e off line: “Unità come CPC (cost per click), CTR (click-through) o CPA (cost per acquisition) sono retaggio del search marketing, ma sono ormai superate. L’attribution si è avvicinata moltissimo all’advertising e non riguarda più il solo last click. Attraverso le dashboard di una DSP oggi si possono calcolare i ricavi per punto vendita geolocalizzati, e si può di conseguenza decidere dove, quando e come investire per ottimizzare e migliorare il ROI”.

Ultimo ma non meno importante, “Il digital advertising – ha concluso Berlik – è sempre più immersivo e consente di sviluppare lo storytelling della marca attraverso un enorme numero di canali: se ancora non si sfrutta pienamente questa opportunità è perché i clienti non chiedono alle loro agenzie creative di sviluppare le campagne adeguando i formati a ciascuno di questi touchpoint.

Ma soprattutto, l’ecosistema digitale, integrato con gli strumenti e i media online, permette oggi di realizzare campagne davvero integrate e olistiche, che però richiedono non sono solo maggiori investimenti ma un nuovo modo di pensare il media planning”.

 

MITI E REALTÀ DEL PROGRAMMATIC ‘FAI DA TE’

Nel nome della trasparenza, del la brand safety e del cost saving, sempre più aziende stanno manifestando l’intenzione di portare al proprio interno le piattaforme di acquisto e gestione degli investimenti in programmatic advertising. In realtà le situazioni in cui ciò è avvenuto sono ancora pochissime, ma una di queste è Lastminute.com: “Il nostro caso è probabilmente particolare – ha spiegato Alessandra Di Lorenzo, Chief Commercial Officer, Media & Partnerships del Gruppo –: siamo un’ecommerce che vende viaggi e vacanze e che acquista spazi adv digitali, ma la tempo stesso siamo un publisher che offre i propri spazi a clienti e partner. Quindi investiamo e contemporaneamente generiamo revenue attraverso una nostra piattaforma proprietaria e totalmente ‘in house’. Credo che ci sia una differenza notevole nell’approccio a questo tipo di soluzione a seconda della diversa storia aziendale: per chi come noi è nato digitale e ha sempre vissuto in un mondo di cookies il passo è più semplice; molto meno per quelle che non sono digital native. Ma per entrambe le tipologie oggi la difficoltà principale è nel trovare le persone e i talenti che hanno dimestichezza con la tecnologia e insieme la capacità di avvicinarsi al mondo del marketing commerciale”.

Di Lorenzo rappresentava la voce dell’unica azienda in un panel moderato da Shane Shevlin, General Manager di Iponweb, cui hanno preso parte Marco De Patre, Italy Country Manager di Improve Digital, Simon Francis, Ceo della società di consulenza USA Flock Associates, Sebastien Robin, Global Programmatic Director di Havas Media Group ed Enrico Quaroni, Regional Director Southern Europe & MENA di Rocket Fuel.

“Nella mia esperienza – ha raccontato Sebastien Robin – non ho ancora incontrato una sola azienda che abbia effettivamente realizzato il salto: l’unica è stata Air France, che però nonostante le dichiarazioni di 4 o 5 anni fa ancora oggi lavora con un trading desk indipendente. Vedo e sento ogni giorno è una fortissima richiesta di maggior trasparenza e di rivedere i contratti, questo sì, ma nessuno che abbia la concreta intenzione di fare tutto in casa e per conto suo”.

Enrico Quaroni, Rocket Fuel

 Sul tema della trasparenza è intervenuto Enrico Quaroni: “A mio parere finché si assicurano al cliente risultati e valore aggiunto il problema della trasparenza neppure si pone. D’altra parte se non garantiamo loro efficacia ed efficienza giorno per giorno rischiamo di essere divorati dai grandi colossi che nuotano nello stesso mare – Google, Facebook e così via. Da parte nostra siamo comunque totalmente trasparenti: i nostri clienti possono alzare il cofano della macchina quando vogliono e osservare il funzionamento del motore”.

“L’obiettivo delle aziende non è il programmatic ma la comunicazione integrata – è la considerazione di Simon Francis –. Lo considerano come una parte dell’intero processo e lo esaminano sotto questa luce, valutandone i potenziali rischi e i possibili benefici. Per loro quel che conta è l’intera sequenza, le persone da formare e dedicare, le risorse da utilizzare e il costo reale della tecnologia e della costruzione di una data strategy”.

“Anche il lato dell’offerta è toccato dagli stessi problemi – conferma Marco De Patre –, perché gli editori si trovano nella condizione di dover rivedere completamente la propria strategia di vendita, combinando e creando il mix corretto fra automation e canali diretti. Per farlo hanno due esigenze: prima di tutto formare al proprio interno la forza vendita, e insieme acquisire le nuove expertise necessarie per gestire questo processo; contemporaneamente devono cercare e trovare il fornitore più adatto a loro per creare SSP che consentano di continuare a offrire ai clienti un approccio consulenziale”.

Uno degli obiettivi più espliciti e dichiarati da parte dei brand che investono in programmatic è la riduzione dei costi, ha evidenziato Shane Shevlin: questo non è in un certo senso in contraddizione con la necessità, e il costo, delle nuove skill da acquisire?

“È vero – ha risposto Robin –, ma una cosa è la riduzione dei costi, altra è l’acquisto del servizio e dell’inventory al prezzo più basso in assoluto: una strategia che si può tradurre solo in una perdita di qualità. Se il risparmio fosse l’obiettivo primario dei brand, tanto varrebbe non investire neppure. Il tema del taglio ai costi delle agenzie non è certo una novità. Ma oggi il nostro lavoro è remunerato infinitamente meno di 15 anni fa, mentre i nostri servizi e la loro qualità è sproporzionalmente aumentata. Quello che serve è un nuovo patto fra agenzie e aziende centrato, lo ribadisco, sulla trasparenza e la fiducia reciproca”.

“Se i test drive prenotati o le vendite di un prodotto raddoppiano al termine di una campagna – ha puntualizzato Francis –, che il programmatic sia gestito in house, appaltato all’esterno oppure sulla luna, a un brand non interessa minimamente! Ciò che vogliono è un ritorno dai loro investimenti secondo i KPI prefissati. Senza dimenticare che la tecnologia permette di stabilire un piano, testarlo e verificarne gli effetti: e a quel punto si può decidere di lasciar perdere piuttosto che raddoppiare il budget previsto inizialmente”.

Per Lastminute.com la chiave di tutto è e sarà sempre il valore ha spiegato Di Lorenzo: “Quale valore mi dà un’agenzia se posso fare da sola, e bene, le stesse cose? Ben vengano le partnership con i gruppi o le agenzie che aggiungono valore, e ben venga la condivisione di costi e margini di profitto. Se si è capaci di fare il pane più buono nel forno di casa propria non c’è alcun bisogno di andare dal panettiere… I test? Sono fondamentali e li utilizziamo regolarmente, ma solo quando una società è sufficientemente agile possono avere successo”.

“Può sembrare un cliché – ha replicato Quaroni –, ma non esiste una soluzione unica e che possa andar bene a chiunque o in qualunque situazione. Il programmatic non è un’isola ma parte dell’intero processo della comunicazione di un brand e lo sforzo dev’essere quello di coordinare e integrare tutti gli aspetti del media planning e buying: se il programmatic è mantenuto in un silo, disconnesso e non allineato agli altri media semplicemente non ha senso”.