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Federcongressi riflette sul Contratto di Associazione in Partecipazione

Una norma civilistico poco conosciuta dagli addetti ai lavori e scarsamente citata dalla pubblicistica specializzata. Lo strumento, in realtà, potrebbe dare alle imprese congressuali il giusto impulso per le sinergie che ancora mancano. Di tale tematica si è parlato a Riccione, durante il convegno realizzato nell’ambito di Expocon.

Con il convegno Operare nella meeting industry italiana: il fenomeno delle aggregazioni, tenutosi venerdì 6 giugno nel Palazzo dei Congressi di Riccione, nell’ambito della manifestazione Expocon, Federcongressi ha inteso dare un contributo su una delle questioni più annose della meeting & incentive industry italiana, ossia la scarsa propensione delle imprese di settore ad aggregarsi, rischiando di perdere in competitività, specie a livello internazionale, e in peso sindacale sul mercato del lavoro. Fra gli esperti che ne hanno discusso a Riccione il dottore commercialista Valeria Bortolotti ha affermato che per aggregarsi non è necessario avventurarsi subito in società di capitali o di persone. "Chi non è sicuro di trovarsi bene con il suo partner e cerca una forma di aggregazione 'soft' - ha affermato - deve sapere che il nostro ordinamento civilistico gli offre il contratto di associazione in partecipazione (l’equivalente della joint venture anglosassone)".

Il contratto di associazione in partecipazione è disciplinato dal Codice Civile dagli articoli 2459 e seguenti. In particolare l’art. 2459 lo individua come quel contratto con il quale “l’associante attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso corrispettivo di un determinato apporto”. Questo tipo di contratto può essere inquadrato tra i contratti consensuali con due elementi essenziali: l’apporto dell’associato e la sua partecipazione agli utili dell’impresa.

Non vi sono dubbi sulle differenze tra contratto di associazione in partecipazione e rapporto di lavoro subordinato: l’associato in partecipazione, se pur conferisce il proprio lavoro, non è un lavoratore subordinato, perché non si inserisce in una azienda altrui per finalità a lui estranee. Non è obbligato a prestare una collaborazione. Non è subordinato a un datore di lavoro, ma solo alle direttive dell’associante. Non ha infine diritto a una retribuzione o, comunque, a un minimo garantito di guadagno e, se pur non partecipa alle perdite, partecipa tuttavia al rischio dell’impresa potendo non conseguire utile di sorta.

L’associato (impresa o persona fisica), verso il corrispettivo di un determinato apporto, acquista il diritto di partecipare agli utili conseguiti dall’impresa associante o dal compimento di uno specifico affare. L’apporto dell’associato può assumere diverse forme: apporto di capitale (beni o danaro), apporto esclusivo di lavoro, apporto misto lavoro-capitale (beni o denaro). A fronte del contributo dell’associato all’impresa (o all’affare), l’associante concede una partecipazione agli utili della propria impresa o di un affare.

Al fine di raggiungere gli obiettivi posti dal contratto, all’associato deve essere riconosciuto un se pur limitato potere gestorio dell’impresa o dell’affare. I limiti del potere di gestione e organizzazione dell’associato rappresentano un elemento particolarmente delicato del contratto; infatti, a differenza del contratto associativo, nell’associazione in partecipazione i contraenti non partecipano in modo paritetico alla gestione dell’impresa, che rimane prerogativa dell’associante.

L’associato deve quindi svolgere la propria attività utilizzando il potere gestorio entro i limiti posti dal contratto stesso o dagli accordi con l’associante.

L’art. 2552 c.c. attribuisce la paternità della gestione dell’impresa: “la gestione dell’impresa o dell’affare spetta all’associante. Il contratto può determinare quale controllo possa esercitare l’associato sull’impresa o sullo svolgimento dell’affare per cui l’associazione è stata contratta”.

Altro aspetto fondamentale del contratto di associazione in partecipazione è la partecipazione agli utili dell’impresa o dell’affare. L’art. 2553 c.c. stabilisce che “Salvo patto contrario, l’associato partecipa alle perdite nella stessa misura in cui partecipa agli utili, ma le perdite che colpiscono l’associato non possono superare il valore del suo apporto”. Il codice civile stabilisce i limiti inderogabili di partecipazione dell’associato alle perdite e stabilisce anche la facoltà delle parti di escludere contrattualmente ogni partecipazione dell’associato alle perdite.

L’associante è il soggetto che, in cambio di un apporto dell’associato, divide parte degli utili della propria impresa o quelli derivanti da un singolo affare. L’associante mantiene la titolarità esclusiva dell’impresa e rimane l’unico soggetto che acquisisce e risponde delle obbligazioni assunte dall’impresa. I terzi acquistano diritti e assumono obblighi soltanto verso l’associante.
Per quanto riguarda gli aspetti fiscali (imposte dirette), il contratto di associazione in partecipazione - per l’associante - concorre alla determinazione del reddito d’impresa nei modi ordinari, in rapporto alla natura giuridica dell’associante stesso.
Essendo l’associante l’unico titolare delle obbligazioni assunte dall’impresa, l’associazione in partecipazione si scioglie per il fallimento dell’associante. Viceversa, il fallimento dell’associato non comporta automaticamente lo scioglimento del contratto di associazione.

Circa l’associato, dal punto di vista delle imposte dirette è necessario distinguere la natura dell’apporto e la configurazione giuridica dell’associato stesso: i compensi percepiti dall’associato imprenditore sono sempre considerati parte del reddito d’impresa. I compensi percepiti dall’associato persona fisica sono considerati reddito da lavoro autonomo, nel caso in cui l’apporto sia costituito da prestazione d’opera, o redditi di capitale nel caso di apporto di beni o misto beni-lavoro.