Inchieste

NC. Inchiesta ‘Italians do it better' - scenario. Bentornati nell'era dell'imprenditorialità

Le aziende investitrici oggi più che mai hanno bisogno di partner di comunicazione che si 'sporchino le mani', che ci mettano la faccia, in nome di un progetto in cui credono intensamente. Questa la convinzione corale di tutti gli intervistati di questa inchiesta dedicata alle agenzie di comunicazione italiane indipendenti,  tratta dal numero di dicembre/gennaio di NC - Nuova Comunicazione,  secondo i quali, se da un lato la crisi economica crea senza dubbio alcune difficoltà, dall'altro l'essere imprenditori di se stessi è la vera carta vincente.

Da ormai sei anni NC - Nuova Comunicazione, si occupa delle agenzie di comunicazione italiane indipendenti nell’inchiesta ‘Italians do it better’, di cui oggi iniziamo la pubblicazione su ADVexpress, partendo proprio dallo scenario tracciato sul numero di dicembre/gennaio della rivista di ADC Group.

In questi sei anni il mercato è cambiato alla velocità della luce. Che cosa significa dunque oggi essere indipendenti in uno scenario così mutato, per certi versi trasformato, rispetto anche solo a pochi anni fa? Domanda d’obbligo nell’ambito di questa inchiesta, se si vuole davvero capire come sta evolvendo questo mercato in Italia, composto da un lato da agenzie appartenenti alle grandi holding, alle prese con riduzioni del personale e fusioni sempre più frequenti, e, dall’altro, da realtà indipendenti che, soprattutto in periodo di crisi, si trovano a dovere affrontare le sfide legate al non avere alle spalle la garanzia di un grande Gruppo.

“Essere indipendenti dai grandi network significa poter offrire ai clienti un approccio basato sull’imprenditorialità, che vede il comunicatore compromettersi in prima persona, e non, invece, sulla managerialità, ambito in cui si deve rispondere a logiche di network - spiega su NC - Nuova Comunicazione Aldo Cernuto, managing director Cernuto Pizzigoni & Partners -. Questo è ciò di cui oggi il mercato ha sempre più bisogno, in quanto dà al cliente una maggiore garanzia di rassicurazione”.
Si spinge ancora più in là di questa considerazione Peter Grosser, amministratore delegato Cayenne (agenzia che solo due anni fa è uscita dall’orbita della holding Dentsu), che dei grandi network dice tranchant: “Gli obiettivi finanziari fissati dall’headquarter estero hanno assoluta priorità su qualsiasi altro aspetto. Ciò porta i loro manager a ragionare nel breve, anziché nel medio/lungo periodo e a considerare il personale un costo, anziché una risorsa. Lascio a ciascun lettore una valutazione sui riflessi che una politica di questo tipo può avere sulla motivazione delle persone...”.

Al di là delle posizioni specifiche, quello che però emerge in maniera alquanto corale dalle risposte degli intervistati, sia in questo scenario che negli articoli dedicati alle agenzie, è la constatazione che oggi più che mai l’indipendenza costituisca un valore competitivo reale, in virtù dell’impostazione e dell’approccio che l’essere imprenditori di se stessi implica.
Non solo: nella stragrande maggioranza delle agenzie italiane - quasi tutte (a parte pochissime eccezioni) di piccole o medie dimensioni - l’indipendenza si riflette anche nell’agilità della struttura, che può garantire flessibilità e velocità nelle risposte alle esigenze sempre più articolate e complesse del cliente.

Come spiega chiaramente Lorenzo Castelnuovo, ceo e partner EarlyMorning: “Le aziende oggi chiedono alle agenzie una consulenza globale attraverso tutti gli aspetti del marketing mix: brand image, digital pr, eventi, promozioni, branded content, implementazione e gestione di siti e piattaforme e-commerce, app, ecc. Tutto questo è possibile solo con un dialogo continuo di aggiornamento tra marketing manager in azienda e agenzie di comunicazione, aspetto questo che premia assolutamente le piccole strutture indipendenti”.





Fare i conti con la crisi

Mantenere però questa indipendenza, in un contesto economico difficile come quello attuale, è una sfida quotidiana. Come spiega Stefano Capraro, ceo Ideal Comunicazione: “Anche il sistema Paese non crea le condizioni per dare a chi è veramente indipendente gli strumenti per rimanere tale, permettendo per lo meno uno sviluppo sostenibile. Ma sono convinto del fatto che l’unico grande limite che possa realmente minacciare il mantenimento dell’indipendenza possa essere quello di percorrere strade già battute e perdere la propria identità, la propria libertà di pensiero. Il cercare e trovare idee nuove e libere non può che essere un valore aggiunto”. Vi è poi un altro aspetto più strettamente legato alle dinamiche del mercato della comunicazione: la tendenza cioè che anche alla filiale italiana di un’azienda venga ‘imposta’ dall’headquarter internazionale un’agenzia del network di riferimento, in una logica di internazionalizzazione della comunicazione.





Crowdsourcing: minaccia o opportunità?

E poi, che dire del crowdsourcing, ultima tendenza del mondo dei media dell’epoca social, che abbatte qualsiasi barriera geografica, in una logica globalizzante? Un trend, questo, molto dibattuto, a cui Adc Group ha dedicato ampio spazio sui propri media (vedi inchiesta su Advexpress del settembre 2014) e un intero convegno nell’ambito di If! Italian Festival, il 2 ottobre scorso (leggi news).
Da un lato, vi sono gli oppositori convinti, che vedono in questa forma di disintermediazione della comunicazione una minaccia alla qualità creativa. Uno di questi è Cesare Casiraghi, amministratore delegato casiraghigreco&, che dichiara senza mezzi termini: “Il crowdsourcing è per chi si accontenta. È per quelle aziende che vedono la comunicazione come un peso e non come un’opportunità, una grande opportunità”. Vicino a questa posizione è Emanuele Nenna, co-founder & ceo The Big Now, che con una lettera ad Advexpress contro una pratica sregolata del crowdsourcing aveva dato il via a un’animata discussione sul tema. “Non lo considero una minaccia di per sé - spiega ora -. Se ben utilizzato dal mercato, il crowdsourcing è un’opportunità tanto per le agenzie quanto per i clienti. Forse un po’ meno per i creatori di contenuti, che sono invitati in massa a lavorare molto con scarse probabilità di essere retribuiti… L’unica cosa che contesto è l’utilizzo sbagliato del crowdsourcing, la tentazione un po’ ingenua di alcuni clienti che sperano di trovare a minor costo idee strategiche, utilizzando un modello che non è pensato per quello scopo”. Ecco qui centrato il punto: i clienti. Troppo spesso, infatti, secondo gli intervistati, tenderebbero a utilizzare il crowdsourcing come alternativa al lavoro di un’agenzia di comunicazione.

Come spiegano Andrea De Micheli e Luca Oddo, rispettivamente ceo e presidente Casta Diva Group: “C’è una certa schizofrenia nel comportamento dei grandi clienti: è la ‘sindrome della botte piena e della moglie ubriaca’. Da una parte si pretende un trattamento su misura, sartoriale, dall’altra si vogliono pagare fee da hard discount. Le due cose non stanno insieme. Per curare i clienti ad personam occorre mantenere un rapporto diretto e fiduciario, e ciò è più facile, se si resta indipendenti”. In particolare, uno dei rischi di questa pratica più sentiti dai player interpellati è quello legato all’appiattimento della qualità del lavoro creativo, che passerebbe in secondo piano rispetto alla questione della remunerazione, che diventerebbe invece determinante nella scelta del progetto da parte dell’azienda.

Ciò è ben evidenziato da Armando Roncaglia, amministratore unico Gruppo Roncaglia, che spiega: “Il meccanismo rende esplicito il valore della remunerazione per la gara, minando in maniera controversa il valore stesso della creatività. In generale il limite di questa soluzione consiste nella difficoltà di stabilire un reale rapporto tra le esigenze di business del cliente e la soluzione creativa, senza un’adeguata intermediazione del pensiero strategico”.

Dal lato opposto, vi sono invece coloro che lo considerano esclusivamente un’opportunità di cui è necessario approfittare. Come spiega Lorenzo Castelnuovo (EarlyMorning): “La struttura interna di un’agenzia ha come primo obiettivo la scelta delle migliori risorse sul mercato, le più performanti e aggiornate, e di coordinarle per ottimizzare il risultato e i costi di realizzazione. Potrà accadere, in un futuro anche prossimo, che il moltiplicarsi delle già numerose applicazioni nella comunicazione determini l’obsolescenza dell’agenzia web a tutto servizio e il mercato si componga di una rete di ‘specializzate’.

Sarebbe in ogni caso da leggere come un’opportunità di creazione di nuove realtà imprenditoriali”. “Non riesco a immaginare in che modo il crowdsourcing possa attentare alla creatività - aggiunge Stefano Capraro (Ideal Comunicazione) -. Creatività va intesa oggi come la capacità di indovinare un’idea, di trovare l’idea più giusta. E in un mercato che cambia alla velocità della luce, che è in continua evoluzione, a mio parere c’è posto anche per il crowdsourcing. Anche all’inizio della rivoluzione digitale molte aziende hanno vissuto il web come una minaccia al proprio potere nei confronti del mercato”. In mezzo a queste due posizioni, sono però molto numerosi quelli che chiameremo ‘attendisti’ o ‘possibilisti’, le cui opinioni non sono né entusiastiche né critiche, ma semplicemente curiose e di attesa. A monte vi è la consapevolezza condivisa che il crowdsourcing sia una delle infinite possibilità offerte dalla tecnologia digitale in ambito comunicativo.

È il caso di Aldo Cernuto (Cernuto Pizzigoni & P.), che lo considera un fenomeno di ‘curioso folclore’: “Non c’è alcuna accezione negativa nella mia definizione - sottolinea -. Anzi. Lo ritengo uno strumento che deve essere guardato con grande attenzione, per capire come può evolvere. Non è corretto vedere in questi strumenti un mezzo di scavalcamento del rapporto di partnership fra agenzia e azienda, piuttosto integrato come una nuova possibile fonte di suggerimenti utili”.

“Il crowdsourcing e la cocreazione in generale saranno modalità rilevanti in futuro, ma saranno ben diverse da come le vediamo oggi - aggiungono Manuela Morpurgo, Giovanna Ridenti, Paola Manfroni e Assunta Squitieri di MaRiMo-. Quello attuale è un modello ibrido, nuove opportunità distorte da vecchie mentalità: non può reggere. Tra non molti anni i creativi e i professional della comunicazione non saranno più i consulenti a libro paga dell’azienda. Saranno l’azienda. E il solco tra chi è in grado di creare immaginario con consistenza e chi sa solo scimmiottare cose esistenti separerà la comunità creativa dai bricoleurs della comunicazione”.

Innovazione e internazionalizzazione, le chiavi per resistere

Le sfide che le agenzie indipendenti si trovano a dover affrontare non sono dunque poche. Rimane da capire quali siano gli strumenti da mettere in campo per sopravvivere alla crisi e rimanere sul mercato vive e vegete. “Per rimanere indipendenti occorre investire in maniera costante in innovazione ed essere percepiti dal mercato come depositari di un know how utile per il successo delle aziende - è convinto Armando Roncaglia, (Gruppo Roncaglia) -. Per fare questo c’è bisogno di una gestione finanziaria sana che consenta all’agenzia di poter scegliere e portare al suo interno le migliori risorse e competenze sul mercato”. Ma c’è anche l’apertura ai mercati internazionali, che rappresentano un’opportunità importante: non è un caso che alcune delle agenzie intervistate abbiano aperto delle sedi all’estero (una su tutti Casta Diva Group), mentre in altri casi si è preferito trovare dei partner esteri, scelti di volta in volta a seconda del progetto (Cernuto Pizzigoni & Partners con Thenetworkone).Addirittura, c’è chi, come Aldo Biasi, presidente Aldo Biasi Comunicazione, pensa che l’internazionalizzazione sia l’unica strada possibile per le agenzie italiane indipendenti per continuare a esserci. “Il futuro non è restare chiusi nei confini di casa, ma è guardare fuori - spiega -. Perché il mercato ormai ragiona in termini globali, e per rispondere alla domanda delle aziende, le agenzie devono essere in grado di accompagnarle. Non si deve più ragionare in termini geografici, perché tutto il mondo - o almeno, nel nostro caso, l’Europa - è Paese”.