News
Space Available in Cannes/ Parlare con l’Algoritmo
Da mesi non si parla d’altro.
A fine aprile, anche il più importante settimanale economico del mondo, The Economist, ha dedicato la storia di copertina a quello che da circa sei mesi pare l’unico vero argomento di discussione globale: Chat GPT e gli algoritmi generativi. (La foto è prodotta da ChatGPT4 come risposta alla domanda se fossi umano come saresti?)
Ho riscritto questo pezzo decine di volte, per aggiornarlo a quello che le discussioni globali aggiungevano, giorno dopo giorno, ed in preparazione al Festival di Cannes, dove l’argomento occupa i seminar più importanti del programma.
Poi, davanti alla dichiarazione di Mark Read, CEO di WPP, sulla partnership con Nvidia, e la volontà di puntare tutto sull’AI, ho deciso che questo pezzo doveva prendere una forma definitiva. Che trovate nelle righe successive.
Mi occupo di digitale da almeno trent’anni, grazie alla sua applicazione in comunicazione sono un creativo “trans mediale” da altrettanto tempo. Sono stato il primo italiano in una giuria digitale a Cannes, godo di un ottimo rapporto di familiarità con programmatori, ingegneri, analisti e ricercatori del settore: non mi si può certo accusare di essere un luddista.
Eppure, proprio per questa mia competenza, ho sentito fortissimo il bisogno di capire perché improvvisamente, davanti a macchine che fanno un buon lavoro partendo da un data base infinito e da un prompt ben espresso, continuo a discutere con una notevole quantità di esagerati entusiasti che vaticinano la scomparsa, o quantomeno l’inutilità per i tempi futuri, dei creativi. La trovo una vera stupidaggine.
Non farò mozioni d’ordine guidate dal romanticismo dello scrittore d’altri tempi (anche perché ho i piedi ben piantati nel moderno e nella tecnologia).
Non pietirò in nome di una categoria che ha regalato pagine meravigliose della storia di questo mestiere (anche perché ho serie intenzioni di scrivere ottime cose in compagnia dei colleghi robot, come ho già anticipato in un paio di TEDX).
Non mi scaglierò verso la inumanità della rivoluzione digitale, che lascerà senza lavoro copywriter ed art director in numeri impressionanti (anche perché son sicuro di continuare a fatturare grazie alla mia abilità di creativo).
No.
Onestamente proverò a riflettere con voi sulle modalità di questo mestiere. Dalla notte dei tempi, dal primo venditore di pesce che al porto arringava le donne sulla qualità del suo pescato, per farselo pagare meglio, fino ai più recenti applicativi di e-commerce che intercettano la domanda direttamente sui motori di ricerca, grazie alle profilazioni digitali dei clienti, per convincere un consumatore a chiudere il suo atto di acquisto occorre una sola cosa: parlare, dialogare, usare gli strumenti della retorica e della psicologia.
Soprattutto se, come capita di questi tempi, prodotti e servizi sono terribilmente omologati, spesso nati dalla stessa macchina confezionatrice con materie prime che spesso arrivano dallo stesso fornitore della supply chain che rifornisce anche i concorrenti.
Ora, gli algoritmi sono meccanismi fantastici, sono ottimi solutori di problemi: hanno il limite di non sapere come vengono risolti i problemi. Come dicono i programmatori, procedono per associazioni fin dal Prompt e, token by token, procedono nella generazione di qualcosa che esiste già, perché parte ed arriva da un data base comune.
Certo, operano a velocità straordinarie, superando le capacità umane di produrre associazioni successive.
Ma, ritornando al nostro titolo di partenza, il nostro mestiere di convincere qualcuno che ha un bisogno reale: l’insight deve essere rilevante per la propria esistenza, quel prodotto/servizio deve essere perfetto per lui, e deve nascere dal dialogo, da un comune sentire, dalla capacità di intercettare qualcosa che esiste già nell’animo umano ed aspetta solo di essere presentato in un modo unico, inaspettato e, appunto, rilevante.
Uno dei miei primi maestri mi ha insegnato a dialogare con i consumatori, perché “non puoi imporre un acquisto. Devi guadagnartelo con il dialogo”. Ecco, in questi anni di digitale ho sentito che invece molti CEO di agenzia sognavano di non aver più bisogno di cercare questo dialogo. Bastava affidarsi all’algoritmo, poi ci avrebbe pensato lui a raggiungere i clienti, proprio in quel particolare momento in cui si manifesta il bisogno. Poi, ti dicono, è un attimo: basta un click e la giusta offerta economica, per chiudere la transazione.
Inutile ricordare a questi capi di agenzia che la “sindrome del carrello abbandonato” al momento del pagamento è ancora oggi il vero dramma dell’e-commerce e di chi pensa che basti usare Seo, Sem, lead generation, remarketing, e adesso Ai generativa, per dialogare con il consumatore finale.
Qualche settimana fa un cliente di una grande pubblica amministrazione mi ha detto personalmente: “ Stiamo testando Chat GPT, per quei problemi fortemente operativi da risolvere in tempo zero, di cui dobbiamo misurare istantaneamente i risultati e che siamo sicuri che come agenzia non potete aiutarci a risolvere”. Tutto molto comprensibile, considerando che devono spesso dialogare in tempo reale con numeri altissimi di consumatori. Ma il tema è che se quello che scrive la Ai rispecchia perfettamente gli standard della PA, che i consumatori hanno già dimostrato di non amare, è garantito che non vorranno dialogare, con quel tipo di output.
Morale, il cliente ci ha richiamato per capire come rendere le comunicazioni con i cittadini “più efficienti”, visto che forse la AI generativa non è la soluzione per quel tipo di dialogo.
Davanti a questa ammissione di sconfitta, ho sorriso.
Purtroppo vige ancora la regola di Howard G. Gossage, che negli anni ’50 sosteneva che la gente legge, guarda e si interessa solo a quello che considera rilevante. A volte è un giornale o un libro, a volte è un filmato o una serie tv, a volte, guarda un po’, è proprio un annuncio pubblicitario. Il digitale ha stravolto i media e la loro fruizione, ha innovato il modo di produrre senso, ci ha messo in mano device che ci fanno accedere a una sterminata massa di contenuti. Ma, alla fine, la scelta è sempre guidata dagli stessi istinti umani che noi creativi conosciamo così bene ed usiamo, da 2500 anni, in modo diverso, originale, adeguato alla cultura e al contesto sociale del tempo, ai bisogni e alle necessità della psicologia di quella precisa persona, in quel preciso momento.
La soluzione non è sostituirci con algoritmi generativi, che comunque avrebbero bisogno di noi creativi nella fase di programmazione e di istruzione.
La soluzione è, da creativi, imparare ad usare tutta la rapidità, la velocità e la capacità di creare associazioni con questi algoritmi, per poi filtrare e utilizzare come base di partenza solo quello che ha chance di diventare Food for Mind, come definiva Franco Moretti gli stimoli alle Idee che stanno per nascere.
Lasciate che Chat GPT rimanga strumento per studenti pigri e di poco talento, che per qualche tempo camuffi le loro lacune. Almeno fino a quando qualcuno non li beccherà, come è sempre successo nella storia della formazione.
Nel frattempo, cominciate a pensare che forse sta nascendo una nuova ed ancora più alta figura di Super Creativo, che Maurizio Goetz ha già definito Curator. Un creativo, magari integrato ed alla guida in una squadra di competenze molto ampie e variate, capace di adattare contenuti diversi ed in cui si completerà in modo moderno il concetto di autorialità, originalità e creatività.
Mentre resterà inalterato quello di dialogo con il fruitore.
Questo sarà davvero il futuro del nostro mestiere.
E del festival che apre il 19 di questo mese.
Ma lasciate ai noi creativi, ai creatori del nuovo, alle donne e agli uomini delle Idee, la capacità di dialogare con i consumatori con quella sensibilità che nessun algoritmo potrà mai dimostrato di avere. Altrimenti, diciamocelo, non ci sarebbero più Copy ed art , ed ancor meno Direttori Creativi, da almeno 30 anni.
E invece.
Pasquale Diaferia (twitter @pipiccola)