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Branded Content con vista di Emanuele Landi. I marchi hanno ancora storie da raccontare? Serve una nuova figura: il Chief Content Officer
I creativi italiani escono da Cannes con il consueto auspicio di “fare meglio e di più”, storditi dall’intelligenza artificiale, ma anche forse da clienti sempre più aridi di budget, di coraggio e di idee. Ma cosa succede alla pubblicità? Un tempo veicolo culturale, oggi appare sempre più come un ostacolo, un’interferenza mal digerita nella fruizione dei contenuti. Ma come siamo arrivati a questo punto? E soprattutto: come possiamo uscirne?
Quando la pubblicità smette di essere rilevante
C’è una scena emblematica nel film The Social Network, in cui un giovane Mark Zuckerberg afferma:
'La pubblicità non è figa.'
E, sotto molti aspetti, è difficile dargli torto. Oggi la pubblicità viene spesso percepita come una punizione, un prezzo da pagare per pagare meno i contenuti editoriali che ci piacciono.
Dopo la sbornia adv free dei primi anni anche le piattaforme di streaming hanno ceduto alla vecchia cara reclame. Secondo Evan Shapiro in US, Nielsen rileva che la share of view degli ad supported tier degli OTT è pari al 72,4% mentre quella senza adv è pari al 27,6%. Dunque, pagare meno e sorbirsi un po' di pubblicità è il nuovo presupposto, non certo una grande premessa per godersi i messaggi. Infatti, l’impaginazione della pubblicità negli OTT (ma tutti anche i social) è in sviluppo: film e serie vengono interrotti brutalmente dagli spot. Sui social, l’esperienza è altrettanto frustrante, tra spot che appaiono in modo
aggressivo durante quel reel che ci stiamo godendo o “contenuti” pubblicitari di creator o influencer totalmente innaturali o “marchette” abbastanza telefonate.
Non è però solo una questione di fastidio. È una questione di pertinenza e qualità.
La tecnologia ci riporta indietro? L’iperconnessione, la personalizzazione del messaggio…la pubblicità deve per forza essere un fastidio necessario per farci accedere a ciò che ci piace? Oppure si potrebbe sfruttare questo ritorno alla centralità della pubblicità nei modelli di business editoriali?
L’involuzione dell’esperienza pubblicitaria
Secondo una rielaborazione da dati di Auditel, Audiweb, Nielsen e UPA negli ultimi 2 anni, In Italia l’attenzione media dedicata alla pubblicità varia in base al mezzo:
Affissione statica: 3%
Social media: 5%
Streaming (AVOD/SVOD): 15–30%
TV lineare: circa 37%
Tuttavia, il tempo medio reale di attenzione fra tutti questi mezzi è di soli 4,3 secondi.
Sui social, si scende a meno di 2 secondi.
Uno studio di Lumen e Dentsu del 2024, condotto su oltre 40.000 impression pubblicitarie in UK, USA, Francia e Giappone, conferma che: Il 60% degli annunci visti per meno di 2 secondi non viene ricordato né associato al brand
Superati i 3 secondi di attenzione, il brand recall cresce del +47%
Secondo studi internazionali di Lumen, Dentsu, Nielsen e WARC, adattati al contesto italiano, ogni anno in Italia tra 3,8 e 5,3 miliardi di euro vengono spesi in pubblicità che non ottiene risultati efficaci.
Questo rappresenta una percentuale di spreco tra il 40% e il 55% dell’intero budget media nazionale. E’ una cifra astronomica.
Un cliente, dunque, paga per condensare tutte le chance di attenzione, connessione, coinvolgimento in quei miseri 4 secondi e se va bene, aumenta il recall cioè si ricordano il suo nome. E il resto? Tutti quei soldi sprecati? Cosa potrebbero diventare?
Il branded content come alternativa
In questo scenario desolante, il vero branded content come approccio alla comunicazione aziendale rappresenta oggi una chance autentica e una risposta concreta e strategica. Non un esercizio di vanità, ma un cambiamento strutturale.
E oggi abbiamo a disposizione strumenti tecnologici che permettono di fare storytelling di qualità con tempi e costi molto più accessibili rispetto al passato.
Non è (quasi mai) un problema di budget
Le aziende spesso obiettano:
“Non abbiamo il tempo e il budget per produrre contenuti.”
Ma la realtà è diversa. Come diceva un mio ex capo: "Non è mai un problema di soldi. È un problema di motivazione al cambiamento per trovare quei soldi".
Spesso il branded content viene relegato a un ruolo marginale: una ciliegina sulla torta, un contenuto di contorno a una campagna tradizionale. Così, però, non potrà mai esprimere il suo vero potenziale.
Serve una nuova figura: il Chief Content Officer
Se vogliamo davvero dare peso strategico al branded content, serve una trasformazione culturale nelle aziende. Serve un Chief Content Officer: qualcuno che sappia scrivere, produrre, analizzare, ma soprattutto pensare il marketing in ottica narrativa. Una figura che accompagni la creazione del piano di marketing sin dalla fase di ideazione, e non solo nella fase esecutiva.
Un esempio interessante è quello di P&G che nel 2024, per affrontare il tema dell’inclusione razziale, ha realizzato una serie di 20 minuti su Tubi con Khaby Lame, il TikToker più seguito al mondo. L’idea era buona, ma la domanda è: Il formato era adatto al pubblico? ma soprattutto, Il media scelto aveva la scala ed il pubblico giusto?
Conclusione: è tempo di raccontarsi meglio
Tutte le aziende hanno una storia. Ma troppo spesso non la vedono. Raccontare quella storia, invece, può essere la chiave per costruire messaggi profondamente connessi con la vita di chi quei prodotti li usa o li vorrebbe usare, ma soprattutto connessi
con il momento in cui si trova quando vede quei messaggi.
Alla prossima settimana con un nuovo appuntamento di Branded content con vista.

