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Space Available Here. Alcune considerazioni sul mercato immobiliare e la conseguente perdita di talenti dalla pubblicità

Nella sua rubrica Pasquale Diaferia riflette sulla rivoluzione in corso nell'industry della comunicazione, inserendosi nel dibattito aperto dall'editoriale di Salvatore Sagone, presidente ADC Group, dal titolo 'Verso un cambio di paradigma e di business model'. "Al di là dei singoli casi e delle diverse storie, è chiaro che le agenzie di pubblicità, che vivono secondo il business model della commissione sulla vendita di spazi, ormai non possono più trovare un punto di equilibrio se, dopo aver risparmiato su affitti e servizi creativi, non cominciano a tagliare i costi proprio nella loro fabbrica: i talenti creativi e gli AD di relazione. Ormai è evidente che non ha più importanza il valore del creativo, ma solo il peso della sua remunerazione."."E' logico che i nuovi, bellissimi grattacieli di acciaio brunito e vetro del centro vengano adesso occupati dalle società di comunicazione, quelle che operano secondo i nuovi business model, che prevedono rapporti consulenziali, data driven creativity, produzione di contenuti per le piattaforme digitali globali".

Era prevedibile che il mercato della comunicazione si modificasse, che nuovi modelli di business prendessero piede, guidati dall'arrivo di nuove tecnologie: hanno completamente cambiato l'approccio a quello che qualche decennio fa era “il dorato mondo della pubblicità”.

Le agenzie di quei tempi, forti della loro reputazione e dei loro fatturati, guidati dalla commissione del 17,65% sugli investimenti, esibivano magnifiche sedi con lussuose reception attorno alla madonnina. Ho cominciato a fare questo mestiere quando la toponomastica di questo mestiere prevedeva la McCann, la prima agenzia per fatturato, in via Meravigli dietro alla Olivetti, la mia JWT in Durini 1 angolo San Babila, la Ayer lì dietro in Via Cerva (la snobissima stradina dove dove Franco Godi aveva il suo studio di registrazione di Jingles), Livraghi Ogilvy and Mother in una piazzetta all'inizio di via Torino, l'ambasciata francese di Séguéla era in via Dante, TBWA occupava, in via Cusani, il palazzo ottocentesco che ospitò Radetzky durante l'occupazione austriaca, Y&R nella nobilissama Piazza Duse, ho lavorato nella prima sede milanese di Saatchi & Saatchi in via Olmetto, la Italia BBDO stava in via Leopardi, dalla sala riunini della CPV all'ultimo piano di un moderno palazzo in Corso Europa si toccava la madonnina allungando un braccio fuori dalla vetrata.

E chi girava per i corridoi della agenzie, all'epoca, era per affinità legato a quelle strade del centro: i copywriter, come molti account, arrivavano da importati famiglie della borghesia milanese, figli o nipoti di imprenditori, politici, giornalisti. Era un mondo affluente e di bella gente, ma attirava talenti che potevano contare su un rapido e prestigioso ascensore sociale meritocratico. Per un giovane dell'epoca, dire “lavoro in pubblicità”, era l'equivalente dei ragazzi che, negli anno '60/'70, potevano permettersi di dichiarare “faccio il giornalista”. Perchè lavorare con Pirella alla Italia, con Mignani in RSCG, con Barbella in CPV, era come servire Lamberto Sechi a Panorama o Scalfari a Repubblica dieci o quindici anni prima: significava aver trovato la strada, aver fatto l'MIT a Boston per un laureato in fisica, o aver giocato in NBA per un playmaker del basket.

Negli ultimi decenni, la situazione immobiliare si è profondamente modificata. A parte pochissime eccezioni, le agenzie, quelle grandi ma anche gli indipendenti, hanno preso la decisione di andare ad occupare spazi sulla cintura delle circonvallazioni esterne ( ma qualcuno vede anche la tengenziale, a dire il vero). Il fenomeno è gemello alle scelte dei colleghi delle grandi capitali europee: tranne Publicis Parigi, dal cui superattico ancora si domina l'Arco di Trionfo, le scelte sagge dei CFO hanno portato le agenzie verso strutture più pratiche, ed economiche, in cui magari anche incastonare in un unico funzionale stabile tutti i servizi comuni.

Così facendo, sono saltati proprio quei servizi che magari una volta facevano la differenza: il direttore cinema esperto che riusciva a rendere scintillanti e avanguardisti gli storyboard di un reparto, l'art buyer sensibile e visionaria che trovava sempre la mano giusta per realizzare proprio quello che i creativi avevano in mente, perfino l'esecutivista di tale capacità che lavorava con rapporti di paraesclusiva per un solo super direttore creativo. Ricordo che Bianchessi era conosciuto da tutti come “l'esecutivista di Gavino Sanna”. Roba da cv, insomma.

Analizzare alla luce di queste semplici considerazioni le recenti uscite delle ultime 8/10 settimane (Gitto, Battaglia, Brenna, ma anche tutti gli esodati degli ultimi dieci anni), secondo me rende tutto più facile. Al di là dei singoli casi e delle diverse storie, è chiaro che le agenzie di pubblicità, che vivono secondo il business model della commissione sulla vendita di spazi, ormai non possono più trovare un punto di equilibrio se, dopo aver risparmiato su affitti e servizi creativi, non cominciano a tagliare i costi proprio nella loro fabbrica: i talenti creativi e gli AD di relazione. Ormai è evidente che non ha più importanza il valore del creativo, ma solo il peso della sua remunerazione. Ove questo supera gli standard imposti dal fatto che non solo non esiste più il 17,65%, ma a volte non esistono più le commissioni, si procede con i tagli lineari.

Togliendo il romanticismo dal tavolo: nessuno si scandalizza, ci mancherebbe. E' logico che succeda.

Così come è logico che i nuovi, bellissimi grattacieli di acciaio brunito e vetro del centro vengano adesso occupati dalle società di comunicazione, quelle che operano secondo i nuovi business model, che prevedono rapporti consulenziali, data driven creativity, produzione di contenuti non per i media tradizionali, ma per le piattaforme digitali globali.

In quelle stesse aziende lavorano giovani professionisti, alcuni figli di ottime famiglie della borghesia nazionale, ma anche tanti talenti appena usciti dalle migliori università: hanno tutti deciso di venire ad imparare questo lavoro della nuova comunicazione, affascinati dalla modernità, dalla tecnologia, dalla visione. Nessuno ha avuto la tentazione di trovare la propria strada nelle agenzie pubblicitarie, nei giornali, nelle televisioni commerciali. I nomi di queste società sono quelli che ormai anche i più scettici e appassionati della comunicazione del passato hanno cominciato a conoscere: McKinsey, Deloitte, Price Waterhouse & Cooper, Bain & Cuneo, la Alkemy appena quotata alla Borsa di Milano, l'antesignana Accenture.

Proprio perchè ho avuto il privilegio nel 2001, da direttore creativo di Y&R, di lanciare quest'ultima sigla , di cui conosco bene i pregi (e i difetti, per l'amor di Dio), sono quello che si è meno stupito di quello che è avvenuto in questi anni.

L'illusione che tutto potesse continuare, con la tv centrale e le eterne commissioni sul media, non poteva che infrangersi sugli scogli della storia.

Adesso, perfino a chi rideva quando si diceva “stanno cambiando i modelli di business”,  perfino a chi si illudeva che le carrozze a cavalli non sarebbero mai passate di moda, finalmente tocca l'ardua scelta: andare ad aprire un ristorante o a fare l'insegnante di yoga. Oppure imparare anche loro a costruire le FordGT, nelle loro officine con magnifica vista sulla tangenziale.

Pasquale Diaferia (@pipiccola)