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InternetDays/1. L'Italia è digitale? Sì, ma non abbastanza

Nella seconda giornata degli InternetDays, si sono succeduti interventi volti a mettere in luce le prospettive, le opportunità e gli strumenti di crescita che il digitale offre alle imprese italiane. Se per quanto riguarda alcuni aspetti l'Italia è al pari degli altri Paesi (diffusione degli smartphone, social networking), per altri è ancora al palo (infrastrutture, e-commerce, modelli di business). Quali i comportamenti virtuosi da adottare? Ecco cosa ne pensano Giuliano Noci (Politecnico di Milano), Roberto Liscia (Netcomm), Riccardo Donadon (Italia Start Up), Gianluca Finistauri (Unicredit) e dell'Onorevole Stefano Quintarelli.
Si è parlato di Energia digitale nella seconda giornata degli InternetDays, a Milano, presso il MiCo. Davanti a una sala plenaria gremita, presentati da Silvia Vianello, docente della SDA Bocconi, sono saliti sul palco esperti del settore per mettere in luce le prospettive, le opportunità e gli strumenti di crescita che il digitale offre alle imprese italiane. 

A dare il via ai lavori Layla Pavone, presidente advisory board InternetDays e managing director Isobar, che ha affermato: "Nonostante le Istituzioni si stiano dando da fare per promuovere la cultura digitale nel nostro Paese, i risultati sono ancora poco tangibili. Attori del cambiamento devono essere le aziende che possono sfruttare le opportunità digitali per ripartire con grinta".

D'accordo Giuliano Noci, ordinario di marketing e prorettore del Politecnico di Milano. "Le tecnologie possono essere un propulsore formidabile per lo sviluppo di nuovi modelli di business e di differeziale competitivo, a patto però di imparare a sfruttarle nel modo giusto", ha esordito il professore. 

"Il fatto è che 'sentirsi digitali' è facile, ma è molto diverso da 'essere digitali'  - ha continuato Noci -. Digitalizzare non significa sostituire atomi con bit, ma piuttosto combinare risorse fisiche e digitali per creare valore e, di conseguenza, anche nuovi ricavi".

In particolare, Noci ha identificato 5 modalità che le aziende dovrebbero seguire per diventare davvero 'digital': automazione, che consente di ottenere prestazioni migliori senza distruggere né modificare il modello di business, applicazione della digitalizzazione per cambiare i requisiti delle risorse, ovvero per accrescere le competenze di organizzazione e cliente; associazione di risorse digitali per nuove esperienze, ovvero miglioramento della customer experience, anche attraverso l'implementazione di attività di social media marketing e digital marketing; miglioramento abilità e capacità umane, tramite la combinazione di device e tecnologie di data mining; estrazione di informazioni, comportamenti e valore, sul modello di Facebook e Google.

Dal momento che le nuove tecnologie impattano sul processo d'acquisto e sulle esperienze mediali dagli individui, anche il marketing deve modificarsi di conseguenza. "L'approccio tradizionale all segmentazione del mercato deve cambiare  - ha detto Noci - : il nuovo paradigma della segmentazione vede l'individuo al centro e deve considerare come variabili fondamentali l'attenzione, la motivazione, il multitasking mediale e il potenziale della viralità. Siamo al lavoro per mettere a punto un'unità di misura nuova, un GRP modificato, in grado di tenere conto non solo della quantità ma anche della qualità della fruizione".

"Insomma - ha concluso il professore - , non solo serve un nuovo approccio culturale, ma le aziende devono re-immaginare il proprio business se vogliono cogliere tutte le occasioni che il digitale offre loro". 

Certo la situazione italiana non è delle più incoraggianti, come emerge dal quadro tracciato da Roberto Liscia, presidente Netcomm. "Come illustrano le ricerche, l'italia è sotto la media europea sia sul fronte dell'utilizzo della rete che dell'accesso alla banda larga (55% contro 72%), così come in merito agli acquisti online (negli ultimi 3 mesi del 2012 nel nostro Paese rappresentavano l'11% degli acquisti contro il 35% della media europea, ndr.), anche per la permanenza di alcuni ostacoli non reali, ma percepiti, come la paura di veder violata la propria privacy o la mancanza di sicurezza nei pagamenti  - ha spiegato il manager - . Non solo. Nella classifica delle 25 principali imprese online europee l'Italia è del tutto assente".

Però non bisogna scoraggiarsi, perché c'è anche una faccia positiva della medaglia. "Gli utenti italiani che effettuano acquisti in rete sono cresciuti del 35%, molti lo fanno attraverso smartphone e l'ecommerce è apprezzato da chi lo utilizza, che addirittura lo preferisce rispetto agli altri canali. Tuttavia le vendite digitali nel nostro Paese rappresentano solo il 2,6% di quelle totali e l'1% escludendo i servizi, dunque è indubbio che ci sia ancora tanta strada da fare in questo senso - ha dichiarato Liscia -. Sul fronte del possesso di device mobili l'Italia è invece perfettamente in linea con gli altri Paesi, anche se smartphone e tablet vengono utilizzati più per fare social networking che per comprare. Di certo il miglioramento dell'usabilità, anche per quanto riguarda i sistemi di pagamento, potrebbere essere una chiave di volta". 

"Oggi i consumatori sono connessi per tutto il corso della giornata, attraverso device differenti - ha continuato il manager - : questa multicanalità può avere dei risvolti positivi per le aziende, se riescono a cavalcare l'onda. Un esempio per tutti è l'operazione Sunny Sale realizzata da una catena di elettronica consumo che vedeva i propri punti vendita svuotarsi all'ora di pranzo. Il management ha pensato di ovviare al problema posizionando per le strade uno speciale QR Code attivo solo dalle 12 alle 13: fotografandolo con il proprio smartphone, i consumatori avevano la possibilità di ricevere uno sconto da usare subito in negozio. Un'idea originale che sfrutta proprio la possibilità, data dalla tecnologia, di essere sempre online".

Sembra nutrire poche speranze in merito alla possibilità dell'Italia di rinnovare i propri modelli Riccardo Donadon, presidente Italia Start Up. "L'Italia non potrà mai diventare una start-up nation", ha affermato Donadon. Perchè? "Non c'è nessuna consapevolezza in merito a questo tema da parte del sistema, nonostante nel nostro Paese non manchi la predisposizione del singolo ad avviare un'impresa propria - ha spiegato - . Inoltre il sistema delle start-up è sottocapitalizzato e il nostro tessuto imprenditoriale è molto diverso rispetto a quello degli Stati Uniti: l'85% delle aziende quotate alla Borsa italiana c'erano già 20 anni fa, mentre l'80% delle aziende quotate alla Borsa Americana ha meno di 20 anni". 

Tuttavia un bagliore di luce c'è. "Il 98% delle imprese italiane è di piccole dimensioni e di fatto sono queste le nostre start-up - ha dichiarato il manager - . La chiave sta nel fondere questo modello con il digitale, per creare nuove realtà nei settori dove siamo più forti, ovvero  Moda, Turismo, Cibo, Benessere, Lifestyle".

Questo non vuol dire che le grandi aziende possano permettersi di restare ferme. Pensiamo ad esempio alle banche, che ormai da qualche tempo hanno dovuto necessariamente modificare il loro modello di business per virare verso l'internet banking. Come ha spiegato Gianluca Finistauri, head of global multichannel & business innovation di Unicredit, "anche le banche si devono scontrare con alcune resistenze ad effettuare operazioni online che, come nel caso dell'ecommerce, derivano soprattutto dalla predilezione dei clienti di un rapporto diretto e 'concreto' e dalla preoccupazione concernente la sicurezza, che per una banca assume una rilevanza ancora maggiore". 

"La filiale del futuro sarà sicuramente più piccola di quella attuale e decisamente più digitale - ha ipotizzato Finistauri - . Senza rinunciare alla consulenza che comunque i clienti richiedono, le banche renderanno le relazioni più digitali, attraverso video chat, filiali interamente virtuali e possibilità di rispondere alle richieste dei clienti, siano essi privati o aziende, da remoto. Inoltre incrementeranno la presenza sul canale mobile, migliorando l'usabilità dei loro siti da device mobili. I servizi dovranno essere sempre più veloci, facili e affidabili, oltre che fruibili da qualsiasi luogo. L'Italia è indietro di 8 anni rispetto agli altri Paesi in merito all'utilizzo dell'online banking, ma sono certo che si darà da fare".

Conditio sine qua non per lo sviluppo digitale del Paese è la presenza di infrastrutture adeguate, tema che è stato portato all'attenzione della platea dall'Onorevole Stefano Quintarelli, in chiusura di mattinata. "La digitalizzazione della comunicazione ha portato alla sostituzione dei cavi di rame con le fibre ottiche - ha esordito l'Onorevole -. Anche in seguito alla liberalizzazione, avvenuta nel 1994, Telecom Italia ha mantenuto il sostanziale dominio al dettaglio (64%). Dal momento però che la rete è nata inizialmente per il telefonno e non è dunque stata pensata per supportare lo sviluppo di Internet, oggi servirebbe un Next Generation Network, in grado di garantire a tutti la possibilità di fruire dei servizi e di aumentare l'efficienza e la produttività della rete".

"Un investimento che sarebbe necessario e utile, dal momento che una nuova rete porterebbe le aziende a essere più digitali e, come hanno dimostrato le ricerche, la produttività delle aziende fortemente digitali è del 74% più alta, senza considerare il fatto che una rete in fibra renderebbe 5 volte l'investimento effettuato", ha aggiunto Quintarelli.

Dunque perché invece i budget non si smuovono? "Innanzitutto la struttura del nostro mercato non è adatta all'investimento, poiché gran parte del loro valore va all'economia e alla nazione, piuttosto che all'operatore che l'ha effettuato - ha spiegato Quintarelli - . In secondo luogo, vi è incertezza sul ROI, e poi la vecchia rete non si può chiudere perché si priverebbero gli operatori privati di un asset importante. D'altra parte, una rete privata non può essere finanziata da soldi pubblici perché si tratterebbe di 'Aiuti di Stato'". 

A prima vista, un cul de sac, dunque. In attesa che si possano trovare (anche per questo) nuove soluzioni, alle aziende italiane non resta che rimboccarsi le maniche per riuscire a salire su un treno che è già partito da tempo. 

Serena Piazzi