Scenari

Comunicare Domani. “Ok, il prezzo NON è giusto”: agenzie e brand devono affrontare insieme la questione chiave della remunerazione nell’era dell’AI. Arduini: “Non siamo esecutori ma partner che offrono soluzioni”

Un titolo tanto provocatorio quanto necessario. Un invito a ripensare il valore economico, culturale ed etico del lavoro creativo e strategico in un’epoca segnata dall’avanzata dell’intelligenza artificiale e da trasformazioni profonde nei modelli organizzativi e di business. Questo il tema centrale dell’edizione 2025 di Comunicare Domani, l’appuntamento annuale organizzato da UNA – Aziende della Comunicazione Unite, tenutosi al MEET Digital Culture Center di Milano.

L’evento è diventato una sorta di cartina tornasole dei cambiamenti dell’intera industria, in cui agenzie, aziende, accademici e professionisti hanno messo al centro un nodo che da anni attraversa il settore: come remunerare correttamente il pensiero, ciò che dà senso, direzione e impatto alla comunicazione, ben oltre i singoli output.

 

ARDUINI: «NON SIAMO FORNITORI DI TASK, MA PARTNER DI SOLUZIONI»

Ad aprire i lavori è stato Davide Arduini, presidente di UNA, che ha scelto di andare dritto al cuore del problema: “Per troppo tempo ci siamo auto-ingabbiati in un modello che ci vedeva come fornitori di servizi. Questo ruolo ci ha indebolito: ci ha spinto a competere sul prezzo e non sul valore, riducendo il nostro lavoro a un elenco di prestazioni da quantificare”.

Arduini ha richiamato la responsabilità delle agenzie nel rivendicare un posizionamento diverso: “I brand hanno bisogno di visione, interpretazione della realtà, capacità di orchestrare complessità. Non sono ore di lavoro: sono soluzioni. E chi offre soluzioni non può essere pagato come un esecutore di task”.

L’intelligenza artificiale, ha sottolineato, è un fattore cruciale ma non sostitutivo: “La tecnologia resta sterile senza la capacità umana di darle senso. Il nostro mestiere non è competere con l’AI, ma umanizzarla, trasformare dati in insight, insight in idee e idee in impatto”.

Il tema però non è solo tecnologico: è culturale, organizzativo, etico. “Il valore non si chiede chiedendo più soldi. Si dimostra con i risultati, rifiutando modelli obsoleti come i compensi a ore o le gare senza riconoscimento economico. E si difende proteggendo le persone: la comunicazione è un business di talento, competenze e creatività. Senza riconoscimento e condizioni sostenibili, il settore non può reggere”.

Arduini ha ricordato quindi anche il ruolo sociale della comunicazione – dalla costruzione della cultura alla connessione tra persone e brand, fino alla comunicazione politica – evidenziando la necessità di difendere la sua centralità: “Se vogliamo parlare di remunerazione, dobbiamo parlare del valore della comunicazione. È nostro dovere farlo, ora più che mai”.

 

LA RICERCA: SOLO IL 27% DELLE AGENZIE CONSIDERA EQUO IL PROPRIO COMPENSO

Nell’intervento seguente, Valentina Salice, presidente del Centro Studi UNA, ha presentato i risultati della ricerca IPA, integrata da una survey sul mercato italiano, che mette in luce il divario ancora profondo tra il valore percepito e quello effettivamente riconosciuto al lavoro intellettuale e creativo. Il quadro che ne è emerso è chiaro e, in molti tratti, allarmante:

• Solo il 27% delle agenzie ritiene il proprio compenso equo.

• Il 67% conferma che il modello prevalente resta il costo orario, benché il 57% lo giudichi insostenibile.

• Il 54% ha sperimentato modelli alternativi, ma con esiti contrastanti.

Il dato più significativo riguarda però la dinamica delle relazioni commerciali: il pricing viene discusso quasi esclusivamente nelle gare, cioè nel momento di massima competizione e pressione al ribasso. “Una volta definito, tutto viene scolpito nella pietra – ha spiegato Salice – e raramente si riapre il discorso anche dopo anni di collaborazione”.

A rendere difficile il cambiamento contribuisce poi il vincolo dei confronti like-for-like, imposti dai template delle gare o dagli advisor: modelli che appiattiscono le proposte e impediscono alle agenzie di presentare soluzioni innovative. “Il risultato è che tutti restano ancorati agli stessi schemi, per paura di essere penalizzati o non compresi. È un circolo vizioso culturale, prima ancora che economico”.

Salice ha inoltre esplorato il tema della difficoltà culturale, tutta italiana, nel parlare di denaro: “Viviamo in un contesto in cui il prezzo è un tabù, ma paradossalmente siamo anche un Paese che sa riconoscere il valore simbolico ed emozionale degli oggetti: una borsa, una Ferrari, l’esperienza estetica di un palazzo storico”.

La domanda diventa quindi inevitabile: perché questo non accade per il pensiero creativo? Perché la cultura del valore, naturale in altri ambiti, sembra smarrirsi quando si parla di idee, strategia, creatività?

Salice ha raccontato due episodi emblematici. Il primo, celebre, riguarda Picasso: quando una signora contestò il prezzo di uno schizzo fatto in un minuto, lui rispose: “Signora, per disegnare così ci ho messo una vita”. Una lezione semplice: il valore non si misura a tempo.

Il secondo esempio arriva dalla Superleggera di Gio Ponti, icona di design tanto bella quanto funzionale, nata per risolvere un problema concreto nel dopoguerra. “Ponti ci insegna – ha detto Salice – che il valore sta nella capacità di coniugare estetica e utilità. Proprio ciò che fa la comunicazione: trasforma la complessità in soluzioni”.

Se il valore del lavoro creativo si abbassa, si abbassa tutta la filiera con un effetto domino, ha evidenziato Salice: le agenzie perdono sostenibilità; le aziende perdono qualità nei materiali; il settore perde attrattività per i talenti; l’industria nel suo complesso smette di essere competitiva.

“Se oggi non difendiamo il valore del nostro lavoro – ha concluso – domani non avremo più un’industria da difendere”.

 

IL VALORE DELLA PARTNERSHIP: INSIGHT, LETTURA DEL CONTESTO E “COPILOTI” DEL BUSINESS

Dopo gli interventi di Lucio Lamberti, Ordinario di Marketing Analytics del Politecnico di Milano, e di Tim Williams, Fondatore e Business & Revenue Model Strategist di Ignition Consulting Group, dei quali diamo un resoconto a parte (vedi news correlata), i temi sollevati dall’intervento di Valentina Salice sono stati sviluppati e approfonditi nel corso della tavola rotonda, moderata da lei stessa, cui hanno preso parte tre protagonisti di settori molto diversi:  Alessandra Giombini, Marketing Communication Manager IKEA, Carlo Colpo, CMO Lavazza, ed Eligio Catarinella, SVP Sales & Marketing Stellantis, che hanno testimoniato come sta cambiando la percezione del valore delle agenzie e quali saranno i nuovi modelli di partnership nell’era dell’IA. Un confronto vivace, ricco di visioni concrete, che ha fotografato con precisione la trasformazione in atto nel rapporto tra brand e partner creativi.

Alla domanda d’apertura – come si misura oggi il valore di una partnership? – i tre manager hanno concordato su un punto: il valore non è più nella semplice produzione creativa, ma nella capacità dell’agenzia di incidere sulla vita delle persone e sul business.

Per Alessandra Giombini il valore si manifesta quando l’idea proposta “Entra nella vita delle persone”, generando un impatto reale sui comportamenti e sulla percezione del brand. Per farlo servono velocità, capacità di leggere il contesto e un contributo culturale che le aziende, da sole, faticano ad avere.

Un elemento spesso sottovalutato, la riflessione di Carlo Colpo, è la qualità delle risorse: “In un mondo dove molte attività si automatizzano, il valore si sposta sulle competenze ad alto valore aggiunto. La differenza la fanno insight e visione strategica”.

Catarinella ha scelto una metafora automobilistica: un’agenzia deve essere “il copilota giusto”, in grado di aumentare la velocità, anticipare le curve e rendere più efficiente il viaggio. In un settore come l’automotive, dove molti nuovi player arrivano eliminando il ruolo dell’agenzia, la capacità di dimostrarsi indispensabili diventa la chiave per restare rilevanti.

Ma tutto questo, in fin dei conti il reale “valore” di un’agenzia, si può vedere e valutare in una gara – ha chiesto Salice.

Catarinella ha espresso un netto no: “Il valore vero non si vede in fase di gara. È come un matrimonio: lo scopri strada facendo”.

Colpo ha risposto con un più prudente “ni”: alcuni segnali ci sono, se il brand è disposto a cercarli e a impostare il pitch come un momento strategico, non solo commerciale. “Il valore si coglie nella disponibilità dell’agenzia a ragionare su KPI di business, nell’attitudine a sedersi davvero accanto al brand, non davanti. Il rischio – ha osservato –, è trasformare la gara in un tema di procurement, centrato sul prezzo e non sul contributo strategico. È lì che la partnership perde forza”.

 

IA: MINACCIA O AMPLIFICATORE DI UMANITÀ?

Non poteva mancare il riferimento al ruolo dell’intelligenza artificiale, che già nel suo intervento Salice aveva definito “ambivalente”, perché se da un lato riduce le ore-uomo, e quindi rischia di spingere ulteriormente verso modelli basati sul tempo, dall’altro, se ben utilizzata, può favorire modelli orientati ai risultati grazie a previsioni più accurate e alla possibilità di collegare obiettivi e impatto in modo più trasparente.

Colpo definisce sé stesso “un umanista tecnologico”: consapevole del potere abilitante dei tool, ma convinto che la differenza la faccia sempre l’intuizione umana. Lavazza sta già utilizzando l’AI per creare synthetic personas da interrogare al posto dei panel, ma la qualità dell’input e dell’insight resta saldamente nelle mani delle persone.

Eligio Catarinella vede l’AI come un alleato che può liberare tempo e sbloccare velocità nei processi, soprattutto nelle attività a basso valore o ripetitive. Ma il valore – quello vero, distintivo – continua a essere umano. “L’AI aiuta sul volume. Il valore lo dà l’agenzia”, sintetizza.

Una delle provocazioni di Tim Williams strettamente legate all’evoluzione tecnologica e delle Gen AI – pagare per un risultato invece che per un tempo di lavoro – trova un alleato convinto in Catarinella. Nel mondo automotive, dove i margini sono sottilissimi e i fattori esogeni numerosissimi, lavorare a performance non è un’opzione: è una necessità.

Tre le condizioni per far funzionare il modello:

  1. Misurabilità del risultato, altrimenti la responsabilità diventa opaca.
  2. Condivisione del rischio, con un fee più un success fee.
  3. Quel contributo umano che l’AI non può replicare, e che giustifica un valore aggiunto reale.

Il futuro, dice, è un modello ibrido, dove solo alcuni progetti sono legati alla performance e altri restano a compenso fisso.

Secondo Colpo, la marca diventa il vero antidoto alla comoditizzazione prodotta dall’AI e dall’eccesso di dati: in un mondo dove anche la relazione tra brand e persone rischia di trasformarsi in un dialogo “machine to machine”, il CMO diventa il principale garante del valore intangibile, quello che rende il brand preferibile.

E non solo. Il CMO deve essere anche facilitatore culturale: coinvolgere procurement, finance e agenzie fin dall’inizio, creare un ecosistema di relazioni trasparente e condiviso, e fare in modo che il tema del prezzo sia discusso come parte della strategia, non come coda negoziale.

Alessandra Giombini ha sottolineato che sperimentare è indispensabile, ma è possibile solo se esistono tre condizioni:

  • obiettivi condivisi e chiariti a monte,
  • velocità nella lettura dei trend e dei comportamenti,
  • fiducia reciproca e spazio per l’errore.

“In IKEA – ha aggiunto –, la cultura dell’errore è parte integrante del modo di lavorare. Senza sperimentazione e senza la possibilità di fallire, non si costruiscono nuovi modelli di valore. Le agenzie devono essere il primo motore che porta stimoli dall’esterno; i brand devono concedersi la libertà di accoglierli”.

A conclusione del dibattito, Valentina Salice ha chiesto ai tre manager una definizione sintetica della partnership ideale tra brand e agenzia nell’era dell’AI.

Carlo Colpo: “Una relazione agile, basata su una partnership vera, dove si condividono i rischi.”

Eligio Catarinella: “L’agenzia è la linfa che permette all’albero di far arrivare la sua energia alle foglie. E oggi la priorità è la velocità.”

Alessandra Giombini: “Velocità, flessibilità, fiducia. E un rapporto in cui non ci si chiede più chi fa cosa, ma come insieme dare vita a qualcosa che ancora non esiste.”

 

Tommaso Ridolfi