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Festival BC&E 2022. Capeci (Kantar): “Agire il Purpose non è come fare una campagna: e le azioni specifiche e concrete delle aziende devono essere in grado di attivare i consumatori”
Non si tratta di un’attivazione semplice perché nuova, ma anche perché richiede la concertazione di differenti livelli e leve di marketing e comunicazione: nel suo speech, Federico Capeci, Managing Director di Kantar Italia, Grecia e Israele, ha spiegato le regole del successo imparate dai migliori casi del mercato e un frame di approccio al Purpose in grado di fornire benefici concreti all’utente finale e quindi in grado di attivare il consumatore in percorsi virtuosi di comportamento responsabile.
“Una cosa che il consumatore ci ha detto in maniera molto forte negli ultimi due anni, dalla pandemia a a oggi, è che il suo sguardo sulle cose gli fa stabilire connessioni su eventi separati – pandemia, inflazione, crisi energetica, aumento del costo delle materie prime, fino alla guerra – anche dove non ci sono. Il lavoro da fare per chi fa business è dunque capire come si connettono queste cose – indica Capeci –: per questo i trend di mercato sono importanti nel momento in cui si trasformano in comportamenti diffusi proprio durante le fasi di shock e i momenti di crisi”.
Fra gli 8 megatrend identificati da Kantar – ‘Protezione’, ‘Identità’, ‘Esperienza’, ‘Flusso’, ‘Semplicità’, ‘Benessere’, ‘Connessioni’ e ‘Responsabilità’ – Capeci si è concentrato sull’ultimo: “Il senso di Responsabilità che i consumatori richiedono ai brand non nasce con la pandemia. È un trend emergente che già si avvertiva da tempo e che oggi, con la pandemia e con la guerra, ha acquisito un sentimento più forte: la responsabilità è oggi 3 volte più importante di 10 anni fa e la percezione di quanto un’azienda sia responsabile è il modo in cui il consumatore declina il concetto di ‘purpose’. Un primo dato è che il 49% del valore della corporate reputation è determinato dal sentimento di responsabilità che i consumatori attribuiscono a un brand”.
Andando più a fondo sul tema delle aziende che all’inizio del conflitto fra Russia e Ucraina avevano in qualche modo preso posizione, l’8% dei consumatori italiani ha notato ‘solo’ attività di comunicazione (come una campagna o il posizionamento di una bandiera sui propri profili social...), mentre il 78% ha notato e anche apprezzato azioni concrete e specifiche da parte dei brand (chiusura di negozi, uscita da certi mercati...).
“È la prima volta che questo avviene in modo così pervasivo – osserva Capeci –: di fatto la metà di chi ha notato questo brand activism dice addirittura che questo aspetto ha fatto cambiare in positivo le proprie opinioni su quelle aziende. Questo vuol dire che il concetto di purpose è arrivato a un livello successivo a quello di cui parliamo abitualmente, ben oltre quello di brand image e di comunicazione, e che stabilisce una relazione fra marca e consumatore molto forte e proattiva”.
Ciò che succede a fronte di tutto ciò, prosegue Capeci, è che permane l’abitudine di molti uomini di business di congelare i budget in attesa che le crisi si risolvano: “Ma alcune cose ormai le sappiamo – chiarisce –. Per esempio che la Social Responsibility ha un impatto sulla percezione del Purpose, che si scarica sul Trust, dando un significato – meaningfulness – al consumatore, e quindi diventa valore. Non è quindi il Purpose che dà valore al brand ma l’intera catena che comprende anche, ma non solo, attività di comunicazione. Avere un purpose è dunque un punto di partenza, ma averne uno distintivo, unico e in grado di motivare il consumatore è ben altra cosa”.
La ricetta del purpose? Non esiste.
In realtà, sostiene quindi Capeci, una ricetta del purpose non esiste: “La pandemia ci ha insegnato anche che fra le comunicazioni fortemente valoriali emerse in quei primi mesi, quando si diceva che il purpose era diventato fondamentale per qualsiasi brand, alcune funzionavano e altre no. Anzi, addirittura, alcune sono risultate estremamente efficaci proprio perché non facevano riferimento alla situazione in corso. Bisogna perciò stare molto attenti perché ogni brand, ogni tempo e ogni audience deve avere il proprio approccio al purpose, altrimenti si sposano solo elementi sociali ma non si attivano i consumatori”.
Se il consumatore sposa il purpose ma poi non agisce, la colpa è del brand che non sa comunicare aspetti motivanti l’acquisto, non è colpa del consumatore che non recepisce l’importanza di questi fattori: “Arricchire la comunicazione di un aspetto sociale va bene – sottolinea Capeci –, ma bisogna arricchirla anche di un aspetto identitario di brand e di uno funzionale di prodotto”.
Il punto finale del ragionamento di Capeci riguarda poi il fatto che ‘agire il purpose’ non è come fare una campagna: “Perché fa nascere nel consumatore aspettative e ci mette di fronte a numerosi interrogativi: tutti i brand devono prendere posizione e hanno credibilità per farlo? Tutte le azioni riceveranno lo stesso apprezzamento? Tutti i brand lo sapranno comunicare bene? Tutti sapranno continuare a prender posizione in modo coerenteanche su tutte le altre guerre? Le risposte, anzi ‘la’ risposta – tira le somme Capeci – è che occorre pianificare una strategia di purpose slegandola dall’emotività e dalla contingenza”.
Fra le aziende italiane, conclude Capeci, la sensibilità sul tema non manca: “Molti professionisti lo considerano ormai anche come un’emancipazione del ruolo del marketing, così come del proprio ruolo sociale da un punto di vista individuale e professionale. Il gap più grande rimane quello della capacità di convertire e azionare comportamenti di acquisto sulla base del purpose che spesso è ancora cosiderato un affare corporate che non fa vendere: non è così! Lo fa quando, come ho detto prima, l’aspetto sociale si combina con quello individuale. Ci sono ottimi esempi nel mondo del lusso, in cui è diffuso lo studio di materiali che permettono la combinazione fra benefit di prodotto e sostenibilità, meno in altri ambiti di consumo”.