Editoriale

Il Naso Fuori. E se la crisi facesse bene alla pubblicità?

Pubblichiamo un nuovo intervento di Marco Ferri che riflette sul passato e sul futuro dei mass media, prendendo spunto, tra gli altri, dalle dichiarazioni di Martin Sorrell fondatore e ceo di Wpp, Sassoli de Bianchi, presidente UPA, Hans-Rudolf Suter,  capo di STZ in Altavia, Emanuele Pirella, presidente Lowe Pirella Fronzoni. "Nell'immediato futuro dei mass media c'è scritto sempre meno giornali, sempre più internet e la tv perderà terreno".

di Marco Ferri

Sir Martin Sorrell fondatore e ceo di Wpp, colosso britannico della pubblicità mondiale ha sentenziato che nel giro di un paio d' anni assisteremo a un radicale cambiamento rispetto agli attuali equilibri. Sempre meno giornali, sempre più internet e broadcaster televisivi 'tradizionali' che cederanno via via terreno nei confronti di nuovi modelli d' intrattenimento e informazione audiovisiva.

Sorrell fa delle previsioni negative per che il 2009 , a fronte di quanto avvenuto su scala mondiale nel 2008, andato meglio del previsto, grazie anche a eventi come le Olimpiadi di Pechino, gli europei di calcio e le elezioni americane. La prima metà del 2009, invece sarà difficile, soprattutto per media tradizionali come giornali, radio, tv, e soprattutto su mercati come gli Usa e l' Europa occidentale. Le stime dicono di una riduzione dei fatturati fra il 5 e il 10%.

Difficile però immaginare cosa accadrà in particolare alla carta stampata, soprattutto negli Usa dove le previsioni dei grandi giornali, dal New York Times (che, per ripianare i bilanci in rosso ha dovuto vendere il grattacielo, disegnato da Renzo Piano, che ospita la redazione a New York), per non parlare del Wall Street Journal (divenuto di proprietà di Rupert Murdoch, ha annunciato tagli e licenziamenti pari al 50 per cento degli addetti): questi eventi fanno pensare a una discesa più ampia della stampa americana.

Il ragionamento di sir Sorrell si fa più fosco quando egli affronta l'ipotesi di uno scenario futuro del rapporto tra pubblicità e media. Nei paesi sviluppati la tv rimarrà ancora dominante, ma dall'attuale quota di mercato attorno al 30-35% scenderà al 20-25%. Internet, oggi attorno al 12% salirà anch' essa al 20-25%. E quanto alla carta stampata, vede anche qui una riduzione al 20-25%. Giornali e riviste sono i più esposti alla concorrenza dei media via internet.

Per Sorrell i fattori di crescita del mercato della pubblicità nel mondo sono racchiusi in tre parole chiave: 'mercati emergenti', dalla Cina all' India al Brasile fino al Vietnam; 'nuovi media', basati su internet; e 'consumer insight', vale a dire sistemi di ricerca che consentono di tracciare esattamente il profilo e i gusti dei singoli consumatori. E per quanto riguarda l'Italia? Forse, dice Sorrell la televisione riuscirà a mantenere, in termini di introiti, quote di mercato superiori rispetto alla media degli altri paesi, ma la tendenza è la stessa. Infatti, l'ultima rilevazione di Nielsen, azienda americana specializzata nelle ricerche di mercato, lo scenario italiano sembrerebbe in linea con le previsioni di Sorrell: il confronto fra dicembre 2008 e dicembre 2007 registra un calo del -10,0% della pubblicità italiana. Nel confronto mensile il calo interessa tutti i mezzi tranne Internet che cresce dello 0,9% sul dicembre 2007. L'analisi per mezzo vede nell'anno un calo dell'1,2% della Televisione e del 7,1% della Stampa.

Questi dati italiani farebbero pensare che le previsioni di Martin Sorrell si avverino, anche perché l'osservatorio da cui parla gli consente una visione globale del rapporto tra pubblicità e mas media. Certo è, comunque che dovremo prepararci a significativi cambiamenti, spinti dalla crisi globale che ha impattato su un sistema dei media e della pubblicità già in evoluzione, ben prima che la crisi economica si facesse sentire, con tutta la sua potenza. I cambiamenti si spiegano proprio la tipologia di quei manager della pubblicità, che in un certo senso proprio Sorrell incarna.

Nella storia della pubblicità mondiale ci sono stati uomini che dalla comunicazione commerciale sono diventati uomini d'affari. Sorrell rappresenta, al contrario una generazione di uomini d'affari che sono entrati nella comunicazione. Sorrell fu il capo delle finanze di Saatchi&Saatchi di Londra, un bel giorno compra la WPP (che sta per Wire and Plastic Products, infatti era una piccola industria che faceva cesti in reti di fili di metallo rivestiti di plastica), insomma, una scatola vuota che quota in Borsa e da lì parte la sua avventura. Oggi Wpp è il secondo colosso mondiale delle comunicazioni, con attività che vanno dalla pubblicità al marketing fino alle ricerche di mercato 'mirate', un fatturato di 15 miliardi di sterline (oltre 16,5 miliardi di euro), 130 mila collaboratori e operazioni in 106 paesi. Volenti o nolenti, uomini come Sorrell sono il futuro della comunicazione commerciale globale.

L'avvento sulla scena di manager che hanno fatto della comunicazione un formidabile fattore di business ha radicalmente cambiato il rapporto tra la pubblicità e i mass media. Una volta la pubblicità era 'ospite' dei giornali, poi della radio, poi della tv e poi di internet. Ma la forza economica conquistata dalle grandi holding finanziarie, quotate in Borsa ha capovolto i rapporti di forza economici, a tutto vantaggio delle comunicazione commerciale. Oggi sembrerebbe quasi che tv, stampa e internet siano diventati loro 'ospiti' della pubblicità, ospiti che devono piegarsi, nel bene e nel male, alle esigenze del padrone di casa e degli inserzionisti globali e locali. La cosa è molto evidente su scala globale, anche se ha delle serie ripercussioni su un mercato 'locale' come quello italiano. Secondo l'opinione corrente, molto diffusa in Italia, giornali e i giornalisti sarebbero chiamati a fare la loro parte in questa congiuntura, se vogliono contribuire a salvaguardare i bilanci delle aziende editoriali e insieme la propria professionalità. Ecco allora che si è dato vita a nuove sezioni specializzate, nuovi inserti e supplementi, nuove formule e formati pubblicitari, più in sintonia con le esigenze degli inserzionisti, ideati e proposti al mercato per attrarre maggiori investimenti: oltre alla vendita di uno spazio, insomma, si è cercato di incrementare l' offerta di un servizio.

"Tutto questo non basta" dice Hans-Rudolf Suter, il capo di STZ in Altavia, agenzia di pubblicità fondata in Italia negli anni Settanta da due svizzeri, Suter, appunto e Fritz Tschirren. Dice Suter: "La faccio breve: in ottobre il New York Times ha avuto 20 milioni di visitatori unici sul sito e venduto un milione di copie al giorno, 1,4 la domenica. Ma la tiratura -continua Suter- è in calo e i soldi in cassa basteranno fino a maggio. Poi qualcosa dovrà succedere: o vendita di giornali come Boston Globe (ma chi compra oggi un giornale ?) o chiudere lo Herald Tribune, vendere gli immobili (come è stato fatto), naturalmente sono tutte soluzioni che non cambiano la realtà: lettori in calo, pubblicità in calo, economia in calo".  E conclude: "Potrebbero chiudere il giornale stampato, e andare completamente sul web, ma il sito (del resto uno dei migliori al mondo) riuscirebbe a pagare solo il 20% dei giornalisti attuali".

A Suter non piace lo strapotere della pubblicità sui media, men che meno sui giornali. Al contrario di Sorrell, Suter ricorda che Howard Luck Gossage, grande pubblicitario americano aveva un'opinione diametralmente opposta sul rapporto tra pubblicità e carta stampata. Lui (Gossage) era contrario a che la pubblicità finanziasse la vita di un giornale, - dice Suter- secondo Gossage, infatti, il giornale doveva giusto dare utili e pagare per se stesso, perché il fatto che tu paghi una cosa che costa 10 euro un solo euro finisce per danneggiare il prodotto. L'inserzionista pubblicitario prima ottiene poi chiede (proprio così!) favori: un ambiente editoriale intorno ai suoi annunci che ne favorisce la lettura. Alla fine- sostiene Suter- hai un giornale con i suoi mille allegati dove bisogna ogni giorni trovare in fretta e furia mille parole da ficcare fra la sostanza del giornale che è , spesso proprio la pubblicità. Il fatto è semplice- conclude Suter- ed è che il pubblico interessato ad un giornalismo di qualità è molto piccolo e non riesce a garantire l'autosufficienza economica alla testata."

Anche in Italia la carta stampata in Italia vive un brutto momento. I giornali sono il luogo dell'informazione per eccellenza, tuttavia perdono lettori, diffusione, raccolta pubblicitaria. Si parla di messa in stato di crisi di più di un gruppo editoriale. La caduta tendenziale dell'influenza dei giornali è un fenomeno che precede di molto l'attuale crisi economica, perché i quotidiani vivono la forte concorrenza dei new media. Come è noto, in Italia il grande competitor è la televisione, la patria dell'intrattenimento, che attira la grande maggioranza delle risorse pubblicitarie.

Recentemente, Lorenzo Sassoli de Bianchi, presidente dell'Upa, l'associazione degli investitori di pubblicità, ha scritto: "Agli editori non posso che prospettare di utilizzare al massimo le loro potenzialità, accelerando la sinergia con la rete e continuando nel buon lavoro fatto fino a ora nell'innovazione dei loro prodotti". E' una notizia perché in passato Upa è sembrata essere sempre molto più attenta alla tv che alla stampa. Fatto sta che si è sintomatico che si torni a parlare di pubblicità e carta stampata. Lo si è fatto recentemente in un convegno a Milano. E' un bene perché si mette in discussione, finalmente, un pregiudizio che si è presto trasformato in un preconcetto contro i giornali: l'intrattenimento attira pubblicità più dell'informazione. E'stato un modo di pensare, da parte del mondo della pubblicità italiana, che ha penalizzato la carta stampata, che non ha permesso finora un vero sviluppo del web, ma che ha rimpinzato, fino a quasi farla scoppiare, la tv. Quando dico scoppiare mi riferisco all'efficacia, o sarebbe meglio dire l'inefficacia del mezzo televisivo, che mostra la corda proprio in tempo di crisi: i consumi crollano nonostante la enorme pressione pubblicitaria televisiva.

La necessità di ampliare a tutta la filiera dei mezzi di comunicazione i messaggi pubblicitari, alleggerendo la pressione sulla tv sembrerebbe una 'conditio sine qua non' del ruolo della pubblicità italiana, sul modello di quanto avviene in tutti i mercati occidentali. Bisogna aggiungere che se l'intrattenimento è un 'bene voluttuario', l'informazione è 'un bene comune', un fondamentale della nostra democrazia. La mediazione che i giornali forniscono tutti i giorni tra gli avvenimenti e i significati, vale a dire tra ciò che è successo e ciò che significa, è il ruolo irrinunciabile di ogni paese democratico, che ha il dovere di alimentare l'informazione, corretta e puntuale, perché la democrazia è tale se i cittadini sono consapevoli, aggiornati e partecipati della vita pubblica. Questo dovere e il relativo vantaggio valgono anche per le aziende che spendono soldi in comunicazione commerciale, per informare correttamente i propri clienti attuali e potenziali. Anche perché i lettori italiani dei giornali, nonostante ricevano almeno tre copie gratuite di free press e abbiano la possibilità di trovare notizie aggiornate in internet, al cellulare o nei tg televisivi, rinnovano il rito dell'acquisto del quotidiano in edicola".

Secondo Emanuele Pirella, decano dei copy writer italiani "i giornali territoriali posseggono autorevolezza e la capacità di essere sulle notizie locali di rilievo per i lettori e di trasformarsi in abili strumenti per la comprensione del mondo. Credo che i quotidiani dovrebbero scimmiottare meno i linguaggi e i modi del web e tornare alla notizia pura, approfondita e autorevole".

Ridare forza attrattiva alla stampa per la pubblicità significherebbe riscoprire un principio basilare: l'autorevolezza di una testata attribuisce credibilità al messaggio pubblicitario, dunque ristabilirebbe i fili della fiducia tra marca e consumatore. Contemporaneamente, obbligherebbe il marketing e il creativo a essere all'altezza della reputazione della testata e della sua autorevolezza presso i lettori. Quanto ai clienti, cioè agli inserzionisti italiani, essi continuano ad essere persuasi che più spot meno stop alle vendite.

"La televisione emoziona, la stampa approfondisce, il web è una opportunità per tutti", ha scritto Lorenzo Sassoli de Bianchi di Upa. Dal quale ci si può permettere di dissentire, non tanto per amor di polemica, quanto per il semplice fatto che è arbitrario attribuire cifre stilistiche ai media. "E' un fatto assodato che la gente non legge (o guarda, ndr) la pubblicità, la gente legge (e guarda, ndr) solo quello che le interessa. Qualche volta si tratta di un annuncio pubblicitario", ha detto una volta Howard Luck Gossage. Qui a quanto pare c'è il punto della questione: come si fa concretamente a dare più spazio alla pubblicità sulla stampa? In altri termini, come si può passare dalle petizioni di principio ai fatti concreti? Siccome la crisi impone scelte decise, ecco la headline: depotenziare la tv, riqualificare la stampa, sviluppare il web. Infatti, se gli investimenti nella tv rientrassero nei parametri di spesa europei, ecco che si libererebbero risorse che andrebbero a tutto vantaggio dell'intera filiera della comunicazione commerciale: dalla stampa al web, fino al publishing, passando per tutti i veicoli sopra, sotto, accanto e oltre la linea della comunicazione commerciale.

"Continuo a pensare che siamo in pole position col cambiamento, anche se forse dovremmo crederci ancora di più ed avere un pizzico in più di presunzione e gusto della sfida", dice Paolo Mamo di Altavia Italia, agenzia che dal publishing sta scalando la filiera della comunicazione commerciale fino all'advertising moderno. Un'esperienza nuova, che più che integrare mira a far convergere le leve del marketing, in una visione che mira alla profondità del rapporto col committente e il suo mercato. Una cosa è certa. Si avverte forte la necessità di andare oltre gli schemi fin qui prefissati. Affrontarne i rischi potrebbe essere il modo giusto per coglierne i vantaggi. Con il vantaggio che le idee farebbero la differenza, che la strategia farebbe la differenza, che la qualità e la creatività del messaggio, e non tanto la quantità dei 'passaggi tv' farebbero la differenza. Aggiungerei che facendo la differenza si abbasserebbe di molto il tasso di diffidenza nei media, nelle marche, nei consumi, nella pubblicità. E se ne avvantaggerebbe anche la tv. Un esempio? In Gran Bretagna, Bbc e Itv hanno sofferto la concorrenza di BSkyB. Però Bbc ha saputo reagire, creando quel che è forse oggi il miglior "marchio" di servizi online al mondo. In Italia è recentemente scoppiata la guerra tra Sky e Mediaset (e, se pur defilata, Rai): la tv satellitare cerca di spostarsi sul terreno generalista, magari arruolando nei suoi palinsesti Fiorello e forse Celentano; il digitale terrestre di Mediaset cerca di 'tematizzarsi', offrendo pacchetti e sconti competitivi. Ma nessuno dei contendenti ha finora puntato al web.

I giornali italiani perdono copie, diffusione e raccolta pubblicitaria, ma hanno una buona presenza sul web, testimoniata da un elevato e crescente numero di visitatori unici quotidiani. Un know- how che gli permetterebbe di occupare uno spazio inedito nel fornire ottimi servizi on line. Ne hanno le capacità, le competenze, ma soprattutto l'autorevolezza che deriva dalla reputazione storica delle testate. Bisognerebbe che avessero il coraggio di investire in tecnologie (gli editori), in professionalità (i giornalisti). La qual cosa imporrebbe una maggiore e migliore flessibilità da parte dei pubblicitari. E attirerebbe gli inserzionisti, sempre pronti a dirottare i budget pubblicitari verso il media più promettente. Nell'immediato futuro dei mass media c'è scritto sempre meno giornali, sempre più internet e la tv perderà terreno. Tutte le crisi impongono scelte. In quella attuale, chi non innova è perduto.