Inchieste

Aziende, se la leadership si traduce in engagement

Riprendiamo lo spunto emerso nel corso di un seminario organizzato dal Learning Center di Federcongressi&eventi. E’ interessante capire come il mondo 'orizzontale' dei social network possa essere applicato alla realtà aziendale. Il modello partecipativo, in verità, si deve tradurre non in mancanza di leader ma nell'engagement. Una persona è 'engaged' quando è intellettualmente ed emotivamente attaccata al proprio lavoro e la Open Leadership è quella capace di condividere valori e visione.

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Si è tenuto giovedì 15 gennaio presso l’Hotel Melia’ Milano il seminario 'Leadership ed engagement: la leadership per motivare è open', a cura del Learning Center di Federcongressi&eventi, coordinato da  Gabriella Gentile. 

Il relatore Paolo Bruttini, presidente della società di consulenza Forma del Tempo (Bologna), specializzata nello sviluppo di tematiche legate al management e alla gestione delle risorse umane, ha innanzitutto introdotto sul valore dell’engagement oggi: 
"Ci possono essere organizzazioni senza leader, senza capi? E’ interessante capire come il mondo 'orizzontale' dei social network possa essere applicato alla realtà aziendale. Quando spiegavo alle aziende questo concetto mi sentivo dire che 'I nostri capi non accetterebbero mai una cosa del genere', 'Non siamo pronti per una condivisione', 'È impensabile perdere il controllo'.

Dalla letteratura emerge il rischio di confusione delle parole  leader e capo . Le due entità non si identificano. Ci sono leader che non sono capi, e ci sono capi che non sono leader».

Le nostre organizzazioni possono aprirsi al mondo esterno e attivare vari scambi e collaborazioni. Le persone vanno coinvolte – ecco la parola chiave: 'engagement'. I dipendenti e i collaboratori hanno idee e possibilità di contribuire al successo dell’impresa. Ebbene, occorre che siano lasciate libere di esprimersi, di sprigionare le loro energie vitali, di cui si ha un gran bisogno vieppiù in periodi come questi. 

Questo modello è in primis un fatto generazionale. Attualmente in azienda lavorano tre generazioni: i baby boomer (nati tra il 40 e il 60), la generazione x (60-80) e la generazione y (80-2000). Ciascuna ha un proprio modo di vivere la leadership.

Il modello partecipativo ha uno svantaggio (è lento) ma pure un vantaggio: dà più qualità, perché consente l’azione di più cervelli, anche se ciò implica una parziale perdita del controllo da parte del vertice. D’altronde – è inevitabile – ci sono aree nelle aziende in cui le persone si autoorganizzano e il boss non sa che cosa fanno.

'Autoorganizzazione' è rendere possibile l’imprevedibile, creare uno spazio di espressione delle risorse, come fa per esempio Google, i cui dipendenti per il 10% del loro tempo fanno quello che vogliono (ovviamente con l’obiettivo-principe di raggiungere gli scopi aziendali). E’ grazie a questa autoprogettualità che, per esempio, sono nate le Google Maps (sono l’idea di un dipendente). Ma autoorganizzazione è anche proattività: significa  consentire alla gente di attivarsi senza che glielo dica il capo.

«Se volete che i vostri collaboratori iperperformino, e ammesso e non concesso che siano le persone giuste, ebbene dovete formarli, non assoggettarli a pressioni eccessive, rispettarne le diversità, responsabilizzarli. Tenendo presente che più cresce la responsabilità, più cresce la difficoltà di contenere l’ansia (anche se con l’età ci si rafforza in questo senso)».

Una persona è 'engaged' quando è fisicamente, intellettualmente ed emotivamente attaccata al proprio lavoro e all’azienda per cui lavora. Il termine 'Employee engagement' descrive il coinvolgimento emotivo e intellettuale dei dipendenti nei confronti della loro organizzazione e dei suoi successi. Gli 'Engaged employees' sperimentano uno scopo convincente e un significato nel loro lavoro, che li spinge a impegnarsi per l’ottenimento degli obiettivi aziendali.

L’engagement può essere definito come  ciò che spinge un dipendente a mettere in campo il proprio ingegno e tutte le proprie risorse per il bene dell’organizzazione. A un livello più intuitivo, l’engagement si riferisce a come le persone si comportano sul lavoro, ovvero alla misura in cui le persone di un’organizzazione sanno quello che devono fare e volentieri s’impegnano a loro discrezione per farlo. E’ la differenza tra andare a lavorare per fare un lavoro adeguatamente retribuito e andare a lavorare per dare davvero il meglio di sé, mostrando creatività e di propria iniziativa.

La open leadership nasce dalle ceneri del modello carismatico-trasformazionale, che aveva come caratteristiche la visione (ispirare gli altri attraverso una visione), la stimolazione individuale su ogni persona e la richiesta di cambiare (nel senso di 'migliorare'). Questo modello però esponeva al rischio di indurre la gente a trasformarsi secondo quello che, in realtà, era solo l’interesse personale del leader.

La open leadership al contrario è trasparente, 'distributed', cioè una funzione della relazione. Quello che fa andare avanti un’azienda è sì il leader carismatico, ma anche il leader silenzioso.

L’engagement è un indicatore dato dalle motivazioni e da tutto ciò che gli sta intorno: fiducia, individuazione, apprendimento e senso del cambiamento. Quali sono le motivazioni che le persone hanno?

Da un’indagine CeRCA del 2010 (condotta all’80% su operai e al 20% su impiegati di medie imprese) risulta che esse sarebbero, in ordine decrescente d’importanza: la sicurezza del posto di lavoro, una vita lavorativa e privata bilanciata, il riconoscimento per il contributo personale, lo stipendio, gli stimoli intellettuali, la possibilità di lavorare con colleghi stimati, l’indipendenza, il livello di responsabilità, il contributo alla collettività e le opportunità di avanzamento. 

Colpisce il fatto che il desiderio di carriera sia all’ultimo posto, segno evidente che non tutti vogliono crescere e che il mondo è cambiato: le cose che avevano senso quindici anni fa oggi non ne hanno più e la gente non ha più fiducia. E’ cambiata anche l’attitudine a dare un contributo, oggi molto più estesa di un tempo ma frammentata dal fatto che tutti contribuiscono e l’apporto individuale è una goccia nell’oceano. 
Spesso neppure ci si accorge che uno fa qualcosa. 

La gente oggi produce un sacco ma non viene riconosciuta in quello che fa. Altro problema: l’apprendimento. Sopravvive chi impara e chi si adatta al contesto. La gente ha capito che se non impara non sopravvive. Oggi il capo comanda, controlla e insegna (cosa, quest’ultima, che un tempo non accadeva). Ed è persona che ha il senso del cambiamento.

La Open leadership pertanto: condivide valori e visione; è un sistema di learning & development; implica capi che riconoscono i contributi dei collaboratori, danno un feedback e accettano le idee; e si rivolge a team e ad ambienti di lavoro che puntano all’eccellenza.