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Pubblicità sessiste, il passo indietro che l’Italia ha evitato (per ora): stoppato l’emendamento di FdI che vuole cancellare il divieto di messaggi discriminatori riportando la figura della donna agli anni ’80

Come riflette anche Mizio Ratti nella sua mizionewsletter, nel 2025 Fratelli d’Italia tenta di abrogare le norme che vietano le pubblicità sessualmente offensive sulle strade italiane. L'azione di Malan e Pogliese, sostenuta da Pro Vita, viene bloccata, ma riaccende il dibattito sul rispetto della donna e sul ruolo della comunicazione nel contrasto alla violenza di genere. Il blitz è fallito non tanto per le proteste delle opposizioni e delle associazioni civiche, quanto per motivi di calendario: il Governo ha deciso di porre la fiducia sul disegno di legge Concorrenza, facendo decadere tutti gli emendamenti in discussione, compreso quello presentato dal Senatore Malan e collega. Anche il settore della comunicazione italiana ha preso posizione e fa sentire la sua voce.

Nel 2025, mentre l’Italia registra ancora decine di femminicidi e una società che fatica a liberarsi da stereotipi di genere, un emendamento promosso da Fratelli d’Italia rischia di riportare indietro di quarant’anni la rappresentazione della donna nella pubblicità. I senatori Lucio Malan e Salvo Pogliese avevano infatti depositato in Commissione Industria del Senato un emendamento che punta ad abrogare i commi 4-bis, 4-ter e 4-quater dell’articolo 23 del Codice della Strada: le norme che, dal 2021, vietano messaggi pubblicitari sessisti, violenti o discriminatori sulle strade italiane.

Fortunatamente, ad ora, il tentativo di abolizione è naufragato. Il blitz è fallito non tanto per le proteste delle opposizioni e delle associazioni civiche, quanto per motivi di calendario: il Governo ha deciso di porre la questione di fiducia sul disegno di legge Concorrenza, facendo decadere tutti gli emendamenti in discussione, compreso quello presentato da Malan e dal collega Salvo Pogliese.

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La vicenda tocca una delle poche leggi che, in maniera concreta, avevano messo un argine all’uso del corpo femminile come strumento di marketing. La norma, voluta durante il governo Draghi e firmata dalle parlamentari Alessia Rotta e Raffaella Paita, aveva introdotto un principio di civiltà nel paesaggio visivo italiano, vietando manifesti che mercificano o umiliano le donne, e impedendo autorizzazioni pubblicitarie a messaggi discriminatori verso genere, orientamento sessuale o disabilità.

A ricordare, riportare la vicenda e a tenerla sempre in cima all'agenda delle cose da attenzionare nel settore della comunicazione, è anche Mizio Ratti, creativo pubblicitario e partner delle agenzie di comunicazione Enfants Terribles e Hallelujah con la sua mizionewsletter.

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Ora, la proposta di abrogazione presentata da due figure di primo piano del partito di Giorgia Meloni sembra voler rimettere in discussione questo presidio di rispetto e decenza. Un’iniziativa che, secondo i promotori, avrebbe l’obiettivo di “difendere la libertà d’espressione”, ma che, nella lettura di molte realtà culturali e professionali, rappresenta un passo indietro nel percorso di maturità sociale del Paese.

A sostegno dell’emendamento si è schierata l’associazione Pro Vita, che parla di “censura ideologica” imposta dalla cosiddetta “ideologia gender”. Ma il rischio reale, secondo critici e osservatori, è di riempire di nuovo le strade di corpi femminili oggettificati, cartelloni ammiccanti e immagini degradanti, in un ritorno a un’estetica pubblicitaria che sembrava appartenere al passato, ai tempi della prima tv commerciale.

 

La risposta del settore della pubblicità

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La reazione del mondo della comunicazione non si è fatta attendere. L’Associazione Italiana Copywriter, guidata da Camilla Valle Porlezza (in foto), ha lanciato una petizione su Change.org che in poche settimane ha raccolto migliaia di firme. “Non possiamo restare neutrali – ha dichiarato la presidente –. Quando comunichiamo abbiamo una responsabilità, e una pubblicità che rispetta le persone non ha bisogno di strumentalizzare il corpo delle donne per essere efficace.”

Anche l’Art Directors Club Italiano, la più importante associazione di creativi del Paese, ha espresso una posizione netta. La presidente Stefania Siani (in foto sotto) ha ricordato che “non si tratta di uno scontro ideologico, ma di una questione di civiltà. Quei divieti garantiscono un livello minimo di correttezza e rispetto. Revocarli significherebbe legittimare di nuovo una cultura del disprezzo che il buon senso ha già condannato.”

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L’iniziativa Equal, promossa da ADCI e curata da Valentina Amenta, continua intanto a diffondere una cultura della comunicazione inclusiva e consapevole, dimostrando che una pubblicità libera da stereotipi è più giusta e più efficace. E mentre le agenzie italiane sembrano aver compreso questa evoluzione, la politica rischia di fare il percorso inverso.

Il dibattito si inserisce in un contesto più ampio e doloroso. Secondo le principali testate italiane, nei primi sette mesi del 2025 si sono registrati 60 femminicidi, saliti a 70 in ottobre. L’Osservatorio di Non Una di Meno ne conta addirittura 82. Il Viminale, che ne riconosce 44, considera solo i casi compiuti da partner o ex partner. I numeri cambiano, ma la sostanza resta: la violenza contro le donne è una piaga profonda, e il modo in cui le rappresentiamo conta.

Come ha scritto Donata Columbro, “i dati sui femminicidi sono dati carismatici”: raccontano molto più dei numeri, perché parlano della cultura che li genera. E in quella cultura, la pubblicità e la comunicazione hanno un ruolo non secondario. Anche se non è causa diretta della violenza di genere, contribuisce a costruire l’immaginario collettivo in cui la donna viene vista, giudicata e, talvolta, sminuita. Le parole e i messaggi veicolati 'sono importanti'.

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Cosa comporterebbe l'eliminazione dell'attuale norma vigente

L’abrogazione dei commi introdotti nel 2021 non cancellerebbe solo un principio giuridico: cancellerebbe un progresso simbolico. Significherebbe dire che tutto è lecito in nome del marketing, che l’immagine femminile può tornare a essere merce, che la libertà d’espressione vale più della libertà e della dignità delle persone rappresentate.

Nel momento in cui la premier Giorgia Meloni continua a rivendicare con orgoglio di essere “una donna, una madre, una cristiana”, il paradosso politico diventa evidente: il partito che porta il suo nome rischia di firmare un atto che svilisce proprio le donne.

E mentre l’Italia si interroga sul senso di parole come “rispetto” e “libertà”, il mondo della comunicazione, spesso accusato di cinismo, sembra oggi più lucido della politica. Forse è davvero tempo che siano i pubblicitari, e non i legislatori, a ricordarci che la civiltà si misura anche da ciò che scegliamo di non mostrare.

Davide Riva