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Cannes Lions 2018. I colossi della tecnologia: opportunità o minacce per la creatività e la società? The Economist apre il dibattito
(Cannes. Dal nostro inviato Tommaso Ridolfi) Un panel condotto da Zanny Minton Beddoes, Editor- in-Chief di The Economist, ha riunito sul palco uno di questi colossi (Facebook, rappresentata dalla sua VP Marketing Solutions, Carolyn Everson), un'azienda (nelle vesti di Keith Weed, Chief Marketing Officer Unilever), un'agenzia media (per voce di Kasha Cacy, Chief Executive USA di UM) e un'osservatore esterno (il sociologo e opinionista del Guardian, Evgeny Morozov).
“Negli ultimi due anni – ha esordito Minton Beddoes – abbiamo visto esplodere il fenomeno delle fake news, lo scandalo Cambridge Analytica e l’interferenza Russa nelle elezioni statunitensi, la pubblicità di marche ignare che ha finanziato contenuti inneggianti a violenza e terrorismo e molto altro ancora. Le ripercussioni di tutto ciò sulle grandi piattaforme tecnologiche sono state fortissime a livello mediatico, ma la loro crescita non ne ha minimamente risentito. È arrivato dunque il momento di chiedersi se questi giganti rappresentano una minaccia o un’opportunità per lo sviluppo della nostra società.
Restando nel territorio del Festival di Cannes l’interrogativo si può tradurre così:
si tratta di portatori sani di una disruption da tempo invocata dal mondo dell’advertising, o la loro potenza sta di fatto uccidendo la creatività?”.
La prima a rispondere è stata Everson: “Le opportunità di fare del bene sono infinite, ma sappiamo che ci sono anche dei rischi – ha ammesso –. Per quel che ci riguarda, nel corso dell’ultimo anno abbiamo riconosciuto la nostra negligenza, Marc Zuckerberg se n’è scusato in prima persona, e abbiamo avviato una decisa inversione di rotta in termini culturali mobilitando l’intera company”.
Belle parole, ha replicato Minton Beddoes, ma in base a che cosa possiamo o dobbiamo fidarci?
“La fiducia è fondamentale per tutta l’industria – ha risposto Everson – e sappiamo di dovercela conquistare e mantenere giorno dopo giorno, sia da parte degli utenti, sia dei nostri business partner. In termini pratici: per contrastare le fake news abbiamo avviato processi di fact checking e di education, dando inoltre agli utenti molteplici strumenti per verificare la sicurezza dei loro dati e l’uso che ne facciamo; per azzerare le possibilità interferenze elettorali verifichiamo ogni singolo annuncio pubblicitario di carattere politico andando a vedere chi lo pianifica, la sua storia, chi e come lo paga; e cerchiamo con ogni mezzo di creare un ambiente totalmente brand safe per i nostri investitori”.
“Questo basta a un’azienda come Unilever?” ha chiesto Minton Beddoes a Weed.
“La fiducia è una questione essenziale – ha risposto il manager di Unilever – ma richiede azioni concrete. I fatti degli ultimi due anni hanno spostato il discorso dal piano del business a quello sociale. E da questo punto di vista va detto che i titoli dei giornali sono sempre orientati a esasperare il lato negativo: io credo però che già il fatto che le piattaforme si siano assunte la responsabilità dell’accaduto e con essa un atteggiamento proattivo sia un fattore importante. Noi cerchiamo di usare contemporaneamente sia il bastone (lo stop ai nostri budget pubblicitari quando le cose non ci convincono) che la carota (riconoscendo i progressi che sono stati fatti)”.
“Anche la società – ha commentato Kasha Cacy – dovrebbe assumersi responsabilità che ha ignorato per troppo tempo: la testimonianza di Zuckerberg di fronte al Congresso USA è stata una cosa davvero imbarazzante, perché dimostra che la maggior parte di coloro che ci governano non sa veramente nulla di questo mondo e non si è nemmeno preso la briga di informarsi! Nessuno educa i giovani da questo punto di vista: le istituzioni, la scuola, gli stessi genitori. E inoltre quando ci lamentiamo delle fake news sui big player dell’online dimentichiamo, o fingiamo di dimenticare, che lo stesso fenomeno riguarda egualmente tutte le piattaforme, tutti i media, tutti i giorni. Abbiamo quasi completamente perso la capacità di distinguere il vero dal falso”.
Oltre alle ripercussioni negative delle fake news e della scarsa brand safety sul mondo
dell’advertising, ha osservato Morozov, sembra che non ci si sia ancora resi conto di quelle che potrà avere la raccolta indiscriminata di dati: “Un fenomeno che oggi dà ai Big del settore un potere spropositato che nessuno ha mai avuto prima d’ora, e che li sta portando a ridisegnare i loro modelli di business”.
A questo proposito, è intervenuta Minton Beddoes, il modello basato sulla cessione dei propri dati da parte degli utenti, monetizzata dalle piattaforme attraverso la pubblicità dei brand riuscirà ancora a stare in piedi e a sostenere il sistema?
“Sono convinta di sì – ha risposto Everson –: noi offriamo il nostro servizio a miliardi di persone che non potrebbero mai permettersi una cosa del genere se fosse a pagamento. L’importante è che le persone mantengano il controllo sui propri dati. Per questo non solo noi abbiamo pienamente sposato il GDPR, ma abbiamo anche esteso i suoi principi a tutti i paesi in cui operiamo. Privacy e pubblicità targetizzata e rilevante non sono mutualmente esclusivi: il consumatore può dirci esattamente cosa vuole o non vuole vedere, e nella maggioranza dei casi gli utenti chiedono di vedere annunci più rilevanti”.
“Per i brand – ha aggiunto Weed – la sfida più difficile è quella di superare la soglia del rumore ed emergere dall’affollamento: la soluzione è dare alle marche un significato più profondo a creare contenuti per i quali le persone abbiano interesse. E tornando ai modelli di business, è un dato di fatto che quando le persone possono scegliere fra free e pay scelgono nella stragrande maggioranza dei casi la versione free sostenuta dall’advertising”.
“Le grandi piattaforme sono in realtà vuote e si popolano di contenuti solo quando noi utenti
postiamo qualcosa sui social o cerchiamo qualcosa online – è stata la provocazione di Morozov su un terzo ipotetico modello di business –: perché dunque a guadagnare devono essere solo le
piattaforme? Non avrebbe più senso pagare noi utenti per il nostro lavoro di creatori di
contenuti?”. Nonostante abbia strappato il primo grande applauso della platea, la domanda di
Morozov non ha avuto risposta…
La discussione ha quindi virato nuovamente verso la creatività: “L’industria è cambiata di più negli ultimi 5 anni che nei precedenti 20 – ha osservato Weed –, e questo grazie alla rivoluzione mobile.
Avere un device sempre a portata di mano ha fatto crescere il tempo che dedichiamo ai media, ma ci sono stati riflessi anche sul rapporto che abbiamo con la pubblicità: oggi non serve più alzarsi per andare a farsi una tazza di the per evitare i brutti spot – e per inciso, non esiste nulla di più irritante che una pubblicità fatta male! – perché basta scorrere la mano sullo schermo del cellulare per farla sparire. Questa è diventata una nuova sfida per i creativi”.
“Io credo che i dati raccolti dalle piattaforme e a disposizione degli advertiser rappresentino una leva fondamentale per migliorare la qualità dell’advertising – ha aggiunto Cacy –, e che gli insight che se ne possono ricavare rappresentano un input straordinario che alimenterà una nuova era per la creatività”.
“Il prossimo passaggio a un mondo online controllato dalla voce – ha chiosato Weed – sarà un nuovo elemento di disruption epocale: per un brand emergere in questo nuovo mondo sarà ancora più difficile, ed è per questo che alla pari delle funzionalità e dello sviluppo tecnologico delle piattaforme, la creatività continuerà a giocare un ruolo fondamentale”.