Editoriale
Cappuccino & Cornetto. Cosa ci aspettiamo da voi
Nella sua rubrica, Marco Ferri riflette sull'efficacia dei programmi dei canditati alle cariche direttive di Assocomunicazione. 'L'assenza di regole ha fatto comodo a tutti, almeno fin quando non è diventata la madre di tutte le battaglie per la sopravvivenza delle agenzie nel mercato.'
Scorrendo i programmi dei canditati alle cariche direttive di Assocomunicazione, si fa sovente riferimento alla questione della remunerazione, dei fee e del dumping. Ma, se strutture economiche del calibro di Wpp, Omnicom, Publicis e IPG, tutte ben rappresentate in Assocomunicazione, quanto nel mercato italiano, tanto da risultare largamente maggioritarie dal punto di vista dei fatturati, tutte insieme non sono finora riuscite a invertire la tendenza, come potrebbe farlo una associazione di categoria?
Diciamoci la verità: fintanto che le agenzie venivano ben finanziate dai clienti internazionali, a nessuno importava un gran che del mercato domestico, se non come territorio di caccia, a volte anche di frodo, e questo a prezzi stracciati. Poi la crisi, o per meglio dire le crisi degli ultimi anni hanno ridotto sempre di più i margini. Allora, i finanziari internazionali hanno cominciato a battere i pugni sui tavoli.
Presi, prima dalla sindrome del "ghe pensi mi!", poi dall'angoscia del "si salvi chi può", i CEO nostrani, consapevolmente o meno ha poca importanza, hanno spinto il mercato verso la spirale saving-dumping: tagliando costi e calando i prezzi si sono mandati via talenti, si è abbassata la qualità del prodotto creativo.
Ma quello che è peggio è che si è distrutto valore: è successo, tanto per fare un esempio, neanche il peggiore fra i tanti, che un cliente, che un paio di anni fa valeva una certa percentuale di fee annuo, oggi ne vale meno della metà. E il suo valore è destinato a scendere, perché alla prossima gara sarà il prezzo e non il talento a fare la differenza che spinge alla scelta dell'agenzia.
D'altronde, perché il cliente dovrebbe autonomamente decidere di aumentare il fee? Se decide di spendere di più lo fa col media, con le ricerche, con gli eventi. Per la creatività ha perso l'abitudine mentale a considerarla una risorsa, è semplicemente una comodity da portar via a saldi. Se così non fosse, sarebbero i clienti, cioè Upa stessa a porre la questione di nuove regole per il rapporto qualità-prezzo della creatività pubblicitaria.
Invece, l'assenza di regole ha fatto comodo a tutti, almeno fin quando non è diventata la madre di tutte le battaglie per la sopravvivenza delle agenzie nel mercato.
Costa propone di affidare a un advisor la scelta dei criteri per la scelta di una agenzia da parte dei clienti. Conosco un paio di importanti responsabili del marketing e un direttore generale che sorridendo mi direbbero: bell'idea, chi lo paga l'advisor? Lo dico senza polemica: perché è meglio arrossire leggendola qui la maliziosa domanda, che sbiancare facendosela fare in sala riunione.
I manager della pubblicità che si preparano a raccogliere il consenso dei loro collegi per essere eletti ai vertici di Assocomunicazione sono anche gli stessi che incontrano abitualmente i clienti, che spesso sono attualmente i dirigenti di Upa. Possibile che ci sia questa dicotomia antropologica: quando ci si incontra per lavoro si dà per scontato che la creatività debba costare il meno possibile. Quando invece ci si incontra come rappresentanti delle rispettive associazioni, si dà per scontato che bisognerebbe "valorizzare" idee e strutture di pubblicità.
E allora il problema è tutto qui: per cambiare, la prima cosa da fare è un opera di verità. Assocomunicazione vuole davvero aprire una vertenza che costringa Upa a un tavolo, sul quale la questione della remunerazione non è più rimandabile né eludibile? Cosa è disposta a fare Assocomunicazione per andare fino in fondo? Insomma, vuole vincere o sta lì solo per partecipare? Ditelo con chiarezza, perché questo è quello che si aspetta il mercato dalla nuova leadership.
Forse un'associazione forte e ascoltata sarebbe una risorsa per tutta la nostra industry. O forse le associazioni sono organizzazioni di categoria che hanno fatto il loro tempo, tanto da essere esse stesse parte del problema che vorrebbero risolvere. Saranno i comportamenti e i fatti concreti a emettere la sentenza. Dopo di che ognuno si sentirà autorizzato a fare come crede meglio per la propria agenzia. C'è chi lo fa da tempo, d'altronde: è il mercato, bellezza!
Diciamoci la verità: fintanto che le agenzie venivano ben finanziate dai clienti internazionali, a nessuno importava un gran che del mercato domestico, se non come territorio di caccia, a volte anche di frodo, e questo a prezzi stracciati. Poi la crisi, o per meglio dire le crisi degli ultimi anni hanno ridotto sempre di più i margini. Allora, i finanziari internazionali hanno cominciato a battere i pugni sui tavoli.
Presi, prima dalla sindrome del "ghe pensi mi!", poi dall'angoscia del "si salvi chi può", i CEO nostrani, consapevolmente o meno ha poca importanza, hanno spinto il mercato verso la spirale saving-dumping: tagliando costi e calando i prezzi si sono mandati via talenti, si è abbassata la qualità del prodotto creativo.
Ma quello che è peggio è che si è distrutto valore: è successo, tanto per fare un esempio, neanche il peggiore fra i tanti, che un cliente, che un paio di anni fa valeva una certa percentuale di fee annuo, oggi ne vale meno della metà. E il suo valore è destinato a scendere, perché alla prossima gara sarà il prezzo e non il talento a fare la differenza che spinge alla scelta dell'agenzia.
D'altronde, perché il cliente dovrebbe autonomamente decidere di aumentare il fee? Se decide di spendere di più lo fa col media, con le ricerche, con gli eventi. Per la creatività ha perso l'abitudine mentale a considerarla una risorsa, è semplicemente una comodity da portar via a saldi. Se così non fosse, sarebbero i clienti, cioè Upa stessa a porre la questione di nuove regole per il rapporto qualità-prezzo della creatività pubblicitaria.
Invece, l'assenza di regole ha fatto comodo a tutti, almeno fin quando non è diventata la madre di tutte le battaglie per la sopravvivenza delle agenzie nel mercato.
Costa propone di affidare a un advisor la scelta dei criteri per la scelta di una agenzia da parte dei clienti. Conosco un paio di importanti responsabili del marketing e un direttore generale che sorridendo mi direbbero: bell'idea, chi lo paga l'advisor? Lo dico senza polemica: perché è meglio arrossire leggendola qui la maliziosa domanda, che sbiancare facendosela fare in sala riunione.
I manager della pubblicità che si preparano a raccogliere il consenso dei loro collegi per essere eletti ai vertici di Assocomunicazione sono anche gli stessi che incontrano abitualmente i clienti, che spesso sono attualmente i dirigenti di Upa. Possibile che ci sia questa dicotomia antropologica: quando ci si incontra per lavoro si dà per scontato che la creatività debba costare il meno possibile. Quando invece ci si incontra come rappresentanti delle rispettive associazioni, si dà per scontato che bisognerebbe "valorizzare" idee e strutture di pubblicità.
E allora il problema è tutto qui: per cambiare, la prima cosa da fare è un opera di verità. Assocomunicazione vuole davvero aprire una vertenza che costringa Upa a un tavolo, sul quale la questione della remunerazione non è più rimandabile né eludibile? Cosa è disposta a fare Assocomunicazione per andare fino in fondo? Insomma, vuole vincere o sta lì solo per partecipare? Ditelo con chiarezza, perché questo è quello che si aspetta il mercato dalla nuova leadership.
Forse un'associazione forte e ascoltata sarebbe una risorsa per tutta la nostra industry. O forse le associazioni sono organizzazioni di categoria che hanno fatto il loro tempo, tanto da essere esse stesse parte del problema che vorrebbero risolvere. Saranno i comportamenti e i fatti concreti a emettere la sentenza. Dopo di che ognuno si sentirà autorizzato a fare come crede meglio per la propria agenzia. C'è chi lo fa da tempo, d'altronde: è il mercato, bellezza!