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NC Digital Festival. Casadei (Web Stars Channel): “Autenticità e verità i valori con cui i creator nativi digitali comunicano con il target. Per ingaggiare le persone, puntate su experience straordinarie che facciano sognare”

Il vero kpi da vendere al cliente sono i brand lovers. Come si possono ingaggiare per un cliente? Il fondatore della creator media company Luca Casadei fa chiarezza sui ruoli di influencer e creator e spiega come approcciare al mercato dell’influencer marketing in modo efficace.

“Creator versus Influencer. E il valore del brand dove lo mettiamo?”. Un tema caldissimo e
decisamente attuale quello affrontato nella giornata dedicata ai talk dell’NC Digital Festival.
Oggi più che mai i brand guardano al mondo dell’influencer marketing come a un vero e proprio
media da sfruttare a fini commerciali.

Ma il punto è:  sono in grado di riconoscerne i vantaggi? E, soprattutto, sanno come ingaggiare in modo performante ed efficace influencer e creator?

Partiamo dall’inizio per comprendere ruoli, significati e potenzialità con Luca Casadei, founder di Web Stars Channel, la prima creator media company nata in Italia oggi leader di mercato.
Casadei ha iniziato la sua carriera come manager di personaggi televisivi ma già nel 2009 ha intuito il potenziale del web affiancando uno dei primi content creator, Frank Matano. Nel 2012 ha aperto Web Stars Channel, il cui naming deriva da due considerazioni: a breve il web avrebbe
creato nuove star proprio come accadde prima con radio, tv e cinema, e la company avrebbe
avuto l’obiettivo di aggregarle per creare una vera e propria industry e far decollare un nuovo
mercato.

A parlarne con Luca Casadei, è Salvatore Sagone, presidente ADC Group. “Iniziamo da una
distinzione di ruoli: spesso si confondono influencer con creator, ma si tratta di figure con
background e professionalità completamente diverse”.

Spiega Casadei: “Nell’ambito business, per semplificare possiamo dire che tutto rientra sotto il
cappello dell’influencer marketing, ma le verticalità sono molto specifiche. L’influencer è un
personaggio facente parte di un altro mondo che porta sui social il suo seguito e tendenzialmente promuove i prodotti come fossero le telepromozioni di un tempo.
I creator sono nativi digitali che nascono già con i contenuti video, sono creativi che trasmettono il loro sapere o un intrattenimento nel formato digital perché ne conoscono la grammatica e le regole. La loro presenza on line è caratterizzata da verità e autenticità, hanno uno storytelling in cui ci si può immedesimare. Spesso, invece, le ‘promozioni’ fatte dagli influencer sembrano più delle ‘marchette’ perché non padroneggiano gli strumenti del web e tentano di replicare altri linguaggi come, ad esempio, quello della tv. Per capire chi sono i creator, vi parlo del mio percorso: quando ho preso Frank Matano, oltre a lui c’erano solo Willwoosh e Clio MakeUp ed erano persone normalissime, ti sentivi uno di loro. Nel 2012 ho deciso di scegliere 10 volti che rappresentassero vari settori - ai tempi si trattava più che altro di gaming e make up - e scelsi anche un ragazzino molto timido, il classico ragazzo della porta accanto che si posizionava allo stesso livello degli utenti. Amava giocare ai videogiochi e si chiamava Lorenzo. Oggi è conosciuto come Favij ed è diventato una star, facendo sognare tanti ragazzi mostrando che ciascuno di loro, come lui, poteva riscattarsi. Questi sono i creator”.

Ma come hanno reagito i brand all’arrivo di questo nuovo mercato? “All’inizio è stato complicato. Prima di tutto, perché i follower dei creator non accettavano intrusioni commerciali, vedevano i contenuti branded come qualcosa di finto e ‘venduto’. Poi quando hanno capito che quello del creator è un vero e proprio mestiere, hanno imparato ad accettarli. La vera differenza la fa la modalità con cui un brand si inserisce nel mondo del creator. I primi anni è stato difficile far capire ai brand che i format a cui erano abituati non sarebbero stati efficaci. Non si poteva recitare un copione con l’effetto della telepromozione. Facevi grandi numeri, ma non facevi numeri per i clienti che venivano emarginati e messi all’angolo. Quando, invece, i clienti hanno capito che dovevano lasciare carta bianca ai creator per farli entrare nel loro storytelling per come realmente l’avrebbero vissuto, la ruota ha cominciato a girare”.

La chiave è che il vero kpi da vendere al cliente sono dei brand lovers. Come puoi realmente dare dei brand lovers al cliente? “Il primo a esserlo deve essere il creator stesso. Il creator deve amare il brand o farsi comunque appassionare dal prodotto veicolato conoscendone la natura per poi far uscire la magia. Solo in quel caso spariscono le forzature e tutto diventa parte del racconto.
Ciò che funziona meglio sono le experience, le leve più potenti per ingaggiare il target. Se il brand mette a disposizione del creator experience incredibili, lui diventa una sorta di traghettatore, un facilitatore che porta alla scoperta del brand e di tutti i suoi valori. E questo non lo ottieni con degli swipe up di prodotti diversi ogni giorno, ma con un percorso strutturato”.

Quali sono, quindi, i consigli che possiamo dare ai brand per collaborare in modo efficace con i
creator? “Oggi consiglierei a un brand di scegliere creator che condivida argomenti e valori affini, che abbia un buon match making con il brand, che sia vicino alla sua natura e lo faccia emozionare. Mettete il creator seduto al tavolo a condividere la creatività con voi, senza fargli indossare un vestito preconfezionato, ma lavorando insieme per creare uno storytelling su
misura”.

Un mondo in grandissima e rapida espansione che può dare risultati davvero interessanti. “Per
darvi un’idea dei numeri di mercato: circa due anni fa abbiamo lanciato Defhouse, una sorta di
hub di formazione con otto creator resident che divulgano contenuti e valori. Sono molti i brand
che collaborano con noi e con cui creiamo experience studiate ad hoc, come, ad esempio, quella
con Tommy Hilfigher che ha fatto vivere ai nostri talent un’esperienza di viaggio incredibile alla
Fashion Week di New York. Il prodotto era in secondo piano, il focus non era sull’abbigliamento,
ma ciò che hanno vissuto è stato talmente cool che il brand e i prodotti diventano
automaticamente cool. Il primo anno Defhouse ha fatturato 500 mila euro in un anno. Oggi fattura 350 mila euro al mese. E’ un format estremamente efficace perché le persone si sentono vicine ai creator e ai brand stessi”.


Serena Roberti