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Content con Vista - media, marketing & AI di Emanuele Landi. Il manifesto della conversazione
La conversazione sarà l’asset primario di ricavi commerciali nel prossimo decennio.
Non è uno slogan: è un cambio di paradigma già in atto.
Mentre i social si trasformano in una TV lineare—dove lo scrolling è diventato il nuovo telecomando—stiamo assistendo a una lenta ma decisa inversione di tendenza. Non è un fenomeno di massa, ancora, ma il movimento è visibile: una parte del pubblico sta uscendo dal territorio selvaggio delle piattaforme aperte.
E c’è un motivo molto semplice.
Quando il modello di business dominante è la pubblicità, la piattaforma deve crescere continuamente. Quarter su quarter. Sempre su. Questo significa che tutto—prodotto, design, contenuti, creator—non ruota intorno all’utente, ma al bisogno di generare vendite. È un motore che può funzionare bene, ma che alla lunga consuma attenzione, fiducia e relazione.
Oggi i creator sono i veri “media brand”. Alcuni più solidi dei media tradizionali. Ma la vera differenza rispetto al passato non è la portata o la creatività.
È la conversazione.
La possibilità di costruire un dialogo.
Il legame con la community.
Quel fandom culturale che i media classici hanno perso e che i brand, spesso, non riescono neanche a immaginare.
Domanda aperta: i brand hanno capito davvero che il gioco è cambiato?
E soprattutto: stanno usando la creator economy per conversare o solo per farsi vedere?
1. Il modello pubblicitario tradizionale: la grande comfort zone
Per decenni il branding è stato semplice: più volte ti vedo → più ti ricordo → più ti scelgo.
Per anni il megafono è stata la TV, poi il web, poi i social. E oggi i creator.
Il modello funziona ancora, eh.
Funziona perché è semplice, scalabile e misurabile.
Funziona perché i creator costano meno di una campagna TV e generano conversioni interessanti.
Funziona perché TikTok ha portato engagement stellari e un nuovo “gold rush” dell’attenzione.
Ma c’è un tema gigantesco: i brand usano i creator come testimonial 2.0, non come interlocutori.
Il 70% delle collaborazioni serve ad aumentare l’awareness.
Non si costruiscono conversazioni, si costruiscono contenuti.
Non si genera relazione, si genera esposizione.
Ed è per questo che l’influencer marketing cresce—anche in Italia—ma raramente cambia la percezione profonda dei brand.
2. Le persone stanno scappando dai social → verso i “walled gardens”
Dal 2022 si vede una lieve ma costante flessione nel tempo passato sui social. È ancora enorme, certo, ma è la direzione che conta: gli early adopters stanno cercando luoghi più protetti, meno rumorosi, più affini.
Parliamo di community verticali, gruppi chiusi, Substack, Discord, Reddit, Telegram.
Spazi dove non si urla per farsi vedere, ma si ascolta per appartenere.
Perché?
Perché le persone non vogliono più essere target.
Vogliono scegliere, filtrare, capire, discutere, respirare.
Il feed è diventato una slot machine di contenuti e pubblicità.
I giardini chiusi, invece, sono luoghi di senso.
Mentre molti brand continuano a investire nel “metamessaggio perfetto”, il pubblico cerca solo un posto meno caotico dove sentirsi visto, non colpito.
3. L’era dei chatbot conversazionali
La vera disintermediazione non arriva dai social.
Arriva dalle AI conversazionali.
- Mercato chatbot 2025: 15,5 miliardi di dollari
- Mercato chatbot 2029: 46,6 miliardi (CAGR 24,5%)
- L’88% dei consumatori ha già usato un chatbot almeno una volta
E la dinamica più importante è questa:
quando una persona ha un dubbio, oggi chiede prima all’AI e solo dopo al brand.
È una scorciatoia cognitiva che azzera l’ansia informativa.
Riduce la complessità.
Ti dà una risposta immediata.
Ti evita la pubblicità, gli slogan, le landing page.
Non mi fido dello spot.
Non capisco il post.
Non ho voglia del sito corporate.
Chiedo al mio assistente AI.
Fine.
E se il primo punto di contatto non sei tu, allora non sei più tu a guidare la narrazione.
4. La GenZ non sta cambiando canale: sta saltando un’intera fase
La GenZ non guarda la TV.
Ma non sta nemmeno “migrando” verso altri media di massa.
Sta facendo qualcosa di molto più radicale: sta bypassando i luoghi dove i brand storicamente costruivano identità.
Spot → ignorati
Sponsorizzate → scrollate
Influencer → saturi
Creator → usati come megafoni
Domanda:
siamo sicuri che oggi un brand possa davvero decidere cosa le persone pensano di lui?
Forse no.
Perché il controllo della narrazione non è più in mano ai brand, ma alle conversazioni che avvengono altrove.
5. L’esperienza sul campo: quando ascoltare cambia il business
Anni fa, lavorando con un brand italiano globale, ho visto il meccanismo dall’interno.
La narrativa era perfetta: patinata, elegante, sognante.
Peccato che non avesse nessun contatto con la realtà del prodotto o con il vissuto delle persone che lo usavano.
Abbiamo completamente ribaltato il modello.
Nessuna grande idea creativa.
Solo ascolto, osservazione, immersione, conversazione con il mondo reale del brand.
Il risultato?
+30% nel canale business più rilevante.
In un anno.
E parliamo di un brand enorme, di largo consumo, in un periodo in cui l’AI ancora non esisteva.
Oggi sarebbe ancora più potente.
Ma servono due cose: coraggio e realtà.
6. Il nuovo paradigma: dall’esposizione all’“utilità conversazionale”
Non chiediamoci più: “cosa vogliamo raccontare?”
La domanda oggi è:
“quale conversazione vogliamo abilitare nella mente delle persone?”
Non bastano contenuti belli.
Non bastano contenuti coerenti.
Non bastano contenuti safe.
Serve diventare un riferimento nei momenti in cui una persona ha un dubbio, una domanda, un confronto, una scelta.
Un brand oggi deve essere pronto a:
- essere interrogato,
- rispondere con onestà,
- essere utile,
- essere umano,
- essere coerente,
- esserci non quando vuole lui, ma quando serve agli altri.
È un cambio totale di postura.
7. Come si costruisce autenticità nei contenuti?
L’autenticità non è un tono di voce.
È un sistema operativo.
1. Verità > Slogan
Partire dai problemi veri, non dalle soluzioni prefabbricate.
2. Ascolto > Ego
Le community ti definiscono molto più della tua brand book.
3. Risposte > Dichiarazioni
Meglio un contenuto che risolve un micro-dubbio che uno spot che ribadisce la macro-visione.
4. Trasparenza > Perfezione
Mostra come fai le cose, non solo il risultato finito.
5. Coerenza > Virality
Essere uno, sempre, su ogni canale.
Il problema?
Molti brand hanno paura.
Paura dei loro demoni interni, paura dei corporate gatekeeper, paura dei temi scomodi.
Ma non ci sono scorciatoie: devi scegliere un territorio e presidiarlo, senza timore.
Il “giocare sul sicuro” porta solo vanity metrics. I social non sono vetrine corporate sono strumenti di costruzione di reputazione e di vendita anche: questo è il principale scoglio da superare.
Conclusione: il futuro non è dei brand che parlano, ma dei brand che capiscono
Siamo entrati nell’era della conversazione aumentata.
Dove l’AI è il primo filtro, il primo consiglio, il primo orientamento.
E dove il modello broadcast—che sia TV o social—rischia di diventare un rumore di fondo sempre più costoso.
Il futuro appartiene ai brand che avranno il coraggio di:
- ascoltare,
- rispondere,
- dialogare,
- semplificare,
- essere autentici,
- diventare utili esattamente nel momento in cui le persone ne hanno bisogno.
Perché non è più tempo di farsi ricordare.
È tempo di farsi capire.
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