
Media
Content con Vista - media, marketing & AI di Emanuele Landi. Dall’abbandono culturale al corto circuito del profitto
Negli anni in cui MTV definiva le mode e Nike lanciava campagne che diventavano cultura pop, le aziende non si limitavano a vendere: creavano significato.
Non erano solo brand, erano cultural companies — organizzazioni capaci di interpretare il tempo, di anticiparlo e di farne linguaggio.
Oggi, molte di loro non esistono più, o arrancano.
Non per mancanza di tecnologia, ma per abbandono del proprio valore culturale: hanno scambiato la fedeltà del pubblico per la velocità dei risultati.
L’errore strategico del breve termine
Evan Shapiro, nel nostro podcast, lo dice con chiarezza: il capitalismo dell’attenzione ha trasformato aziende che vivevano di cultura in macchine di performance.
MTV, una volta laboratorio di linguaggi e contaminazioni, è diventata un canale di reality.
Nike, da icona culturale capace di ancorarsi all’evoluzione sociale e tecnologica, si è progressivamente concentrata sullo short term profit e sull’efficienza di canale, perdendo parte dell’aura culturale che l’aveva resa simbolo.
https://substack.com/@elandor/note/c-169450513?utm_source=notes-share-action&r=6i3vlv

Il risultato?
Crescita episodica, volatilità, e una perdita di riconoscibilità come movimento culturale.
Non è solo un problema etico: è un problema economico.
La cultura crea valore duraturo; la performance crea flussi temporanei.
Quando le aziende scelgono la seconda e smettono di nutrire la prima, inizia la stagnazione o il declino come dimostra il macro caso Nike.

I numeri raccontano tutto
Secondo una ricerca di Havas meaningful brands “le persone non avrebbero nessun interesse se il 74% dei brand scomparisse”
Nel frattempo, le aziende che mantengono una forte identità culturale — Patagonia, Lego, Ben & Jerry’s, o in Italia Ferrero e Barilla — continuano a crescere con stabilità, investendo meno in performance media e più in coerenza narrativa.

Il dato è semplice: la fiducia è un moltiplicatore più potente del CTR.
Quando un’azienda smette di rappresentare un valore e insegue solo il click, il pubblico non la odia: semplicemente la dimentica.
E l’oblio, per un brand, è peggio della crisi.
Il caso dei creator: piccole audience, grandi impatti
I dati di settore confermano che non servono milioni di follower per generare ricavi significativi: secondo ricerche di Linktree, Influencer Marketing Hub ed Exploding Topics, la maggior parte dei creator professionisti opera sotto i 100.000 follower, e molti di loro raggiungono ricavi a cinque o sei cifre l’anno grazie a community coerenti e modelli direct-to-fan.

Nella sua ultima “creator map” Evan Shapiro inaugura l’indice di qualità del coinvolgimento che dice che non conta la quantità ma la reattività profonda del pubblico che hai. Non serve una fanbase di milioni: serve un pubblico centrato.
La stessa logica vale per le aziende: know your audience, play for them, not for everyone.
È la stessa regola dei grandi musicisti: non serve suonare per lo stadio, se non sai più emozionare chi è in prima fila.
Le cultural companies che prosperano — da Apple a Netflix (quando fa cultura, non quando insegue la quantità) — sono quelle che mantengono l’accordatura tra senso, pubblico e coerenza.

Trovare la propria voce è un atto economico, non romantico
Spesso si dice che “trovare la propria voce” sia un concetto poetico.
In realtà è una strategia di sopravvivenza.
In un mercato dove tutto è misurabile, la vera differenza è l’insight, la capacità di dire qualcosa che conta per chi ti ascolta.
Le aziende piccole e medie dovrebbero imparare proprio da qui:
non serve diventare virali, serve essere rilevanti e costanti.
Comunicare per chi ti capisce, non per chi “potrebbe comprare”.
È un paradosso solo in apparenza: le grandi aziende che hanno costruito comunità solide (come Red Bull, Lego, o WeRoad) non hanno mai comunicato per tutti, ma solo per chi condivideva un codice culturale.

E quando si scala?
La domanda è inevitabile: come mantenere coerenza quando l’orchestra si ingrandisce?
Il modello tradizionale delle multinazionali — rigido controllo centrale, linee guida, esecuzione locale — oggi è sempre più fragile.
L’iper-controllo soffoca la creatività e rallenta la reazione.
Ma la totale democratizzazione del brand è altrettanto rischiosa: pochi marchi riescono a gestirla senza perdersi.
WeRoad, ad esempio, ha costruito la propria forza proprio sulla democratizzazione della voce: lascia parlare la community, ne amplifica le storie, ne accetta la spontaneità.
Non è un modello per tutti, ma dimostra che la cultura può scalare senza centralizzare.
Serve una nuova leadership di regia, non di censura.

La lezione per chi comunica (e per chi si reinventa)
L’abbandono del valore culturale è un errore che non riguarda solo le aziende.
Riguarda anche i professionisti, i consulenti, i creatori, chi — come me — ha dovuto reinventarsi dopo anni di silenzio.
Nel momento in cui perdi il contatto con il tuo pubblico, smetti di essere rilevante.
Non serve inseguire il trend, serve riconnettersi con ciò che rappresenti.
Perché, alla fine, la cultura — in azienda come nella vita — non è una decorazione:
è il collante che tiene insieme ciò che fai e perché lo fai.
Conclusione
La rottura profonda dell’intermediazione ha generato l’economia dei creator individuali, media personali che costruiscono fiducia perché veri e significativi. Questa fiducia si trasforma in ricavi. La fiducia è il KPI più importante che segue l’attenzione. Ecco perché molti grandi marchi sono ancora capitalizzati ma stanno perdendo colpi perché non stanno curando il proprio pubblico. Questa è l’evoluzione del trend di individualizzazione del mercato dei contenuti

Le aziende che capiscono il gioco — e le persone che restano nel gioco — sono quelle che sanno suonare per il proprio pubblico, ogni giorno, con la stessa passione e disciplina.
La cultura, dopotutto, è solo un’altra forma di economia:
quella in cui la fiducia si misura in memoria, non in click.
Episodio completo qui

