Da sinistra, Laura Corbetta, ceo e founder Yam112003, e Giulio Finzi, segretario generale consorzio Netcomm
Congresso - convegno

Yam112003 ‘Kaihua’. Per sbarcare in Cina servono conoscenza del contesto, piani strategici triennali e comunicazione digitale capace di creare engagement

Quello cinese non è un mercato, è il mercato. Per espandere il proprio business in Cina, occorre saper posizionare adeguatamente il brand, a partire da una profonda conoscenza del contesto locale in cui si intende operare. Da non sottovalutare la necessità di accompagnare il marchio con un nome cinese, per motivi legali, per spiegare il significato della marca e per facilitare la ricerca sui social media e sulle piattaforme e-commerce.

La Cina è a portata di un click, ma attenzione a non andare allo sbaraglio, altrimenti quella che poteva essere un’incredibile opportunità di business può facilmente trasformarsi in una triste Caporetto. Del tema si è discusso oggi pomeriggio, 29 giugno, nell’ambito dell’evento ‘Kaihua - Seeding your brand in China’ svoltosi al Palazzo Giureconsulti a Milano. L’iniziativa, dedicata alle aziende italiane del mondo food, fashion e design interessate a espandere la propria rete commerciale in Cina, è stata organizzata da Yam112003 (communication company parte di Endemol Shine Group), The George (agenzia internazionale di marketing, comunicazione e advertising) e Chiomenti (studio legale con una forte vocazione internazionale). Il tutto con il patrocinio di Comune di Milano, Fondazione Italia Cina, Confcommercio Milano Lodi Monza e Brianza, e Aice - Associazione Italiana Commercio Estero.

Come spiegato da Laura Corbetta, ceo & founder Yam112003, la prima risorsa da valorizzare per approcciare il mercato cinese con successo è quella della comunicazione, soprattutto digitale, in virtù della sua capacità di creare engagement. Iniziative di comunicazione che, ovviamente, vanno elaborate tenendo conto del contesto e della cultura locale.

La parola chiave, secondo Agnes Durr, international marketing manager Baci Perugina, è ‘differenza’: in Cina tutto è diverso, dal target ai canali di vendita, passando per logiche di branding, modo di lavorare e cultura generale. Ecco perché un buon consiglio è quello di accompagnare il brand con un nome cinese, per motivi legali, per spiegare il significato della marca e per facilitare la ricerca sui social media e sulle piattaforme e-commerce.

La questione centrale è quella culturale: occorre impegno per conoscere e approfondire le differenze di contesto e riuscire ad adottare le giuste strategie. Ma non basta, una volta lanciato il prodotto è necessario perfezionare la strategia in corsa d’opera e trovare il giusto partner locale.

Grazie a questi approcci Baci Perugina, che conta più di 160mila followers su T-mall, la più grande piattaforma e-commerce in Cina, è diventata un vero e proprio global brand, operativo in tutto il mondo, Cina compresa.

In particolare, come precisato da Durr, Baci Perugina è attiva in 55 Paesi, con un fatturato mondiale (escluse Italia ed Europa) riconducibile per il 50% al Nord America, per il 20% al Sud America, per il 5% all’Australia e per il 25% alla Cina, quest’ultimo è proprio il mercato che cresce di più con un +60%registrato nell’ultimo anno.

Nel dettaglio, il fatturato cinese di Baci Perugina è per il 50% generato da attività di e-commerce, per il 30% da retail e per il 15% da wedding expo, ossia dall’utilizzo dei Baci Perugina come bomboniere per i matrimoni.

Sul tema è intervenuto anche Mattia Mor, executive director Europe di Mei.com (Alibaba Group), il quale ha posto l’accento sul mercato cinese e sul canale digitale come due grandi opportunità di business per le aziende italiane.

Oggi la richiesta di prodotti made in Italy da parte del Paese più grande al mondo è sempre più forte, e il digitale è il mezzo più veloce ed efficiente per portare tali prodotti al pubblico in maniera capillare.

“Con il digitale - ha precisato Mor -, anche un piccolo laboratorio artigiano italiano può rivolgersi con un click a una classe media di 360 milioni di cinesi, che sta crescendo di anno in anno. Sfruttare al massimo la Cina e il digitale vuol dire, per le aziende italiane, andare incontro ad anni di possibile crescita e sviluppo economico”. Senza dimenticare, ha precisato il manager, che “il 30% del consumo di lusso mondiale è cinese, e che il 45% del lusso cinese è comprato online”.

Secondo Giulio Finzi, segretario generale consorzio Netcomm, investire sulla Cina è necessario sia perché si tratta del mercato più grande del mondo, sia perché la Cina anticipa le tendenze, e dunque comprendendo il funzionamento del retail cinese è possibile scoprire quello succederà anche da noi dopo sei mesi o un anno.

Inoltre, ha aggiunto Finzi, “la Cina non è un mercato, è il mercato; ecco perché serve impegno, studio, formazione e soprattutto tempo. Occorre elaborare un piano strategico almeno triennale, in cui si metta in conto che, nei primi mesi, non si guadagna niente, e solo dopo aver apportato i giusti correttivi si inizi a fare profitto”.

I principali freni che limitano l’internazionalizzazione del nostro business verso la Cina, secondo David Doninotti, segretario generale Aice, sono di natura culturale, ma le aziende devono comprendere che, se non investono in piani strategici e formazione, non possono ottenere risultati.

Nel suo intervento, Sara Marchetta, partner Chiomenti, ha sottolineato l’importanza, per le aziende italiane, di avviare partnership con imprese cinesi: “Avere un investitore cinese che entra nell’azienda italiana - ha spiegato - può essere un grande valore aggiunto”.

Mario Garaffa