
Branded Content
'Branded Content con Vista' di Emanuele Landi. Branded Content Originale: cosa significa per una marca diventare autonoma e rilevante
Investire in un branded content originale per una marca è, senza mezzi termini, un atto di coraggio. Un’azione non scontata, soprattutto in un sistema aziendale che, ancora oggi, è costruito per sostenere modelli di comunicazione ad alta ripetibilità, dove il ritorno sull’investimento deve essere rapido, tangibile, e, spesso, strettamente finanziario.
Il branded content originale costa. Costa tempo, costa sforzo creativo, costa in termini di visione strategica. Ma soprattutto costa in termini di capacità di negoziazione interna. I budget media e marketing, nelle aziende, non sono quasi mai predisposti per ospitare investimenti “produttivi” che non garantiscano una scalabilità immediata. E chi ha lavorato in grandi corporation lo sa bene: il budget marketing, nella maggior parte dei casi, è l’ultima voce ad essere approvata. Ed è il CFO – figura chiave in ogni processo di allocazione – che ne determina la forma finale, con l’obiettivo ultimo di garantire marginalità, saving, e ritorno certo.
Questa logica è spesso coadiuvata da una C-suite a trazione commerciale, dove il CEO – spesso proveniente da ruoli di vendita – spinge per risultati nel breve periodo. L’equilibrio tra brand building e sales activation è una tensione continua, ma la bilancia pende quasi sempre dalla parte dell’attivazione. La conseguenza? Il marketing si ritrova nell’angolo, percepito talvolta come un centro di costo più che come un motore di crescita.
È un bias culturale? Sì. Ma non del tutto infondato. In molti casi, i soldi spesi in marketing danno vita a contenuti modesti, autoreferenziali, incapaci di generare attenzione autentica. Nonostante i modelli predittivi, gli strumenti di misurazione e l’intelligenza artificiale, molte campagne parlano più ai board interni che alle persone là fuori.
In Italia questo è particolarmente evidente. Il marketing è ancora visto, da molti, come il reparto “che si diverte a fare spot”. E Cannes – per quanto sia un barometro dell’eccellenza creativa – finisce spesso per sembrare una comfort zone autoreferenziale, più che un termometro del valore percepito dal pubblico.
Ma un’alternativa esiste. E non è teorica.
Ci sono approcci, strumenti e sensibilità che possono trasformare il marketing in una leva di impatto, capace di costruire relazioni significative e non solo conversioni. Un branded content originale ben costruito, infatti, può diventare il catalizzatore di un’esperienza trasformativa per il brand e per le persone. Un ponte, non un megafono. Un atto di ascolto, prima ancora che un’azione di vendita.
Un esempio che mi ha colpito – e che vale la pena raccontare – è quello realizzato da Tesco Mobile nel Regno Unito, in collaborazione con Essence Mediacom: “The Great British Phone Switch”. Una docu-fiction, costruita come una challenge familiare, in cui i membri della famiglia si scambiano le loro “vite digitali” per superare l’incomunicabilità derivata da mondi che non si parlano. Il tema della sicurezza nella navigazione, la comprensione dello slang delle nuove generazioni e di cosa è importante per loro e viceversa è un tema rilevantissimo in ogni famiglia.
Il punto di partenza è fortissimo: una telco che ti invita a cedere il tuo telefono ad un altro. Un contenuto controintuitivo, che rompe la logica autoreferenziale della comunicazione di prodotto e abbraccia un posizionamento valoriale.
È un’iniziativa che sposta il focus dal “vendere” al “capire”. Che non bussa alla porta della casa per proporre l’ennesimo bundle con giga illimitati e clausole oscure, ma entra con rispetto, con l’intento di aprire un dialogo vero.
Perché il problema – l’abuso di tecnologia nei contesti familiari e la sicurezza nell’utilizzo – è reale. E condiviso. E Tesco Mobile non si limita a raccontarlo: lo affronta. Lo mette in scena. Lo connette a un prodotto reale di supporto. In altre parole: non sponsorizza, ma agisce.
Il branded content qui diventa advocacy. Una narrazione che non solo umanizza il brand, ma contribuisce anche a ridefinire la percezione dell’intero settore telco, spesso visto come aggressivo, impersonale, ossessionato dalla performance a scapito della relazione.
Certo, un’iniziativa così da sola non basta. Una rondine non fa primavera, e una campagna del genere rischia di essere solo un caso isolato se non sostenuta da una strategia editoriale strutturata e da un investimento continuativo.
Ma il segnale è chiaro: costruire contenuti editoriali originali, rilevanti, che rispondano a problemi veri e parlino la lingua delle persone, è una strada che porta lontano. Anche sul fronte della loyalty, che non si ottiene con i punti premio o gli sconti, ma con un’identificazione profonda, con un senso di fiducia che cresce nel tempo.
Le marche che riusciranno a diventare autonome nella produzione di contenuti rilevanti, e non dipendenti dai formati promozionali, saranno quelle che costruiranno valore nel lungo periodo. Il branded content non è un “vezzo creativo”, ma una leva di reputazione, relazione e rilevanza. Sempre che lo si sappia usare con intelligenza.
Nel caso analizzato parliamo di una marca con un NPS molto forte ed una reputazione e affidabilità potente quindi pronto a spingere su asset più sofisticati, ma anche aziende più piccole devono oggi provare a uscire da una logica meramente transattiva nell’acquisizione di nuovi clienti e più in una logica costruttiva. Questo comporta sforzi ed investimenti più rilevanti ma necessari in un contesto così saturo e frammentato.
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Emanuele Landi
Landiconsulting.it