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OBE Summit. Robbiati (OMG): “L’attenzione è diventata un bene primario, ma occorre misurarla andando oltre la sfera visiva. E capire che un secondo di attenzione non ha lo stesso valore su qualsiasi canale”
Riprendendo la presentazione di Erik Rollini sui dati del mercato BE (leggi news) dalla quale è emerso come le aziende tendano in realtà a misurare meno le proprie attività di Branded Entertainment, Marco Robbiati, Head of Media Intelligence & Market Insight OMG, ha sottolineato come questo dato possa essere letto positivamente: “Il fatto che le aziende tendano a misurare meno è perché, secondo me, c’è una ricerca di ‘senso’. Mi spiego meglio: nella misurazione soprattutto negli ultimi 20 anni si è stati attenti in particolare alle metriche di performance, in un mercato che mette a disposizione una quantità infinita di dati legati al business, creando una sorta di contrapposizione fra il tema di costruire equity e appunto performance”.
Questa ricerca di senso, spiega Robbiati, porta ad andare oltre le semplici misurazioni: “Tant’è che – aggiunge –, come ha scritto la Harvard Business Review qualche mese fa, nella diatriba fra equity e performance le aziende stanno implementando un framework di misurazione che considera entrambi gli obiettivi”.
Robbiati porta quindi l’esempio della neuroeconomia, un settore della ricerca neuroscientifica che studia il funzionamento della mente umana in relazione ai processi decisionali: “Se ne parla tanto ma in realtà non è una vera novità – puntualizza –: il neuromarketing esiste da quasi 20 anni e se oggi è diventata particolarmente importante è perché stiamo assistendo a un passaggio dai ‘big data’ ai ‘brain data’. Il significato, il senso che si vuole dare a questa misurazione è che anche se io so chi sei e che cosa fai, non so perché lo fai... In questo senso l’attenzione, nell’ambito della misurazione dei mezzi, diventa un bene primario. Oggi si parla spesso di brand availability, e l’attenzione diventa un fattore essenziale per costruire memoria e spazio nella mente del consumatore. Non solo a livello quantitativo ma anche qualitativo, e in questo il brand entertainment gioca un ruolo fondamentale proprio per la sua capacità di costruire connessioni rilevanti”.
Robbiati ha quindi illustrato gli spunti da cui è partito il progetto di ricerca ‘Beyond Visual Attention’ (leggi news) promosso da Omnicom Media Group in collaborazione con AINEM (Associazione Italiana di Neuromarketing), Ipsos e Nielsen.
“L’idea alla base è stata quella di andare oltre l’Eye Tracking, che da solo non è sufficiente a comprendere in modo approfondito il tema dell’attenzione, aggiungendo altri tipi di misurazione del cervello e del corpo (tramite EEG, elettroencefalogramma, e tramite GSR, Galvanic Skin Response: ndr), per comprendere come reagiamo agli stimoli anche durante processi che normalmente non richiedono la nostra attenzione. Il consumo dei media, in un certo senso, non è molto differente dal processo della respirazione, cui non facciamo caso finché non ci pensiamo esplicitamente e ne prendiamo coscienza”.
Lo squillo imprevisto di un cellulare durante lo speech ha quindi dato a Robbiati lo spunto per ricordare come l’audio, ‘collabori’ con la visualizzazione: “Noi non possiamo ‘staccare’ l’udito, è l’unico dei nostgri sensi sempre attivo per avvisarci delle situazioni di pericolo distogliendo quindi l’attenzione dalla parte visiva... Una cosa di cui ci siamo accorti è che anche se non si guarda la tv ma la si ascolta, lo spot viene ricordato: a dimostrazione
della capacità 'attentiva' dell'audio, pari a quella del video, i nostri colleghi all'estero ci dicono che quando creano uno spot curano in modo particolare la parte audio proprio tenendo in considerazione che potrebbe non essere visto ma solo sentito mentre si guarda il secondo schermo”.
Tornando ai dati di BVA, Robbiati ha evidenziato come il tempo dedicato ai contenuti televisivi (60%) sia abbastanza vicino a quello dedicato alla pubblicità (52%), mentre nel caso del mobile il divario è molto più netto: 85% per i contenuti e solo 27% pubblicità.
“Il perché è chiaro: il mobile lo abbiamo davanti agli occhi, e spesso l’algoritmo va a mediare e ad alimentare le nostre passioni. Però se io guardassi questi dati tout court, non capirei e non avrei idea esatta del valore di questo tipo di misurazione. Andando più a fondo, infatti, possiamo verificare come i diversi mezzi abbiano curve di esperienza diverse: non è una questione comparativa in senso quantitativo, ma di comprensione di quale canale
untilizzare al meglio a seconda di come ottenere la massima attenzione. Dobbiamo però chiederci: un secondo di attenzione ha sempre lo stesso valore? La risposta è che dipenderà da qual è il carico, lo stimolo cognitivo e il tipo di esperienza. La cosa interessante che abbiamo scoperto è che in realtà conta tutto: il device utilizzato, lineare piuttosto che on demand, in mobilità piuttosto che a casa... In questa cornice di senso c’è davvero l’opportunità di capire come a seconda degli schermi e delle modalità di fruizione anche pochi secondi di attenzione possono essere ricchi di esperienza”.
In chiusura, alla domanda se si stiano evidenziando differenze fra le diverse generazioni, Robbiati ha risposto che inevitabilmente l'età incide sui risultati della ricerca ma che il tema di fondo è quello dell'esperienza: "Io sono un cinquantenne con una mente novecentesca e quindi Tv, giornali, lettura da sinistra a destra e dall'alto in basso in maniera sequenziale... I giovani che sono stati immersi dalla nascita in un mondo che non era più lineare ma
circolare, hanno una visione diversa, quasi di mappe concettuali: in una battuta, è come se fossero passati da Gutenberg a Zuckerberg! Comunicare con loro richiede ovviamente una serie di connessioni di qualità, e tornando al tema di questo Summit OBE, il Branded Entertainment è sicuramente un mezzo capace di farlo”.
TR