Brand Power
Interviste

Brand Changing, l’evoluzione della marca nell’era della percezione

Le aziende, più che proporre prodotti, oggi devono riuscire a vendere marche. La differenza di valore la si genera operando sulla dimensione percettiva, per evocare personalità, coerenza e credibilità, e quindi trasformare l’offerta in qualcosa di unico. Pubblichiamo la cover story dello Speciale Brand Communication della rivista NC - il giornale della Nuova Comunicazione.
 
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Cosa ci spinge a scegliere un prodotto anziché un altro? Cosa ci porta a spendere di più per acquistare un servizio, piuttosto che optare per uno simile, ma più conveniente in termini di prezzo? Per rispondere a queste domande dobbiamo focalizzarci sui cambiamenti che stanno caratterizzando il mondo del business. E per farlo abbiamo intervistato Gaetano Grizzanti (nella foto), fondatore di Univisual, brand advisor e perito del Tribunale di Milano su tematiche di branding, con 30 anni di esperienza nel settore sulle spalle.

Il brand è il primo vero prodotto che ogni azienda dovrebbe vendere”, esordisce Grizzanti. Tranne rare eccezioni, le reali differenze tra prodotti e servizi concorrenti presenti sul mercato sono abbastanza circoscritte. Il progresso tecnologico e la facilità di diffusione delknow-how’ hanno portato a una elevata riproducibilità tecnica di quasi ogni prodotto e servizio in circolazione.

La guerra sul prezzo e la concorrenza internazionale, quanto mai sfrenata, fan sì che tutti o quasi, dalle multinazionali alle piccole imprese, siano nelle condizioni di poter presidiare uno specifico settore, proponendo prodotti o servizi diversi ma molto simili a quelli dei diretti competitor. In questa situazione di sostanziale omologazione - spiega il fondatore di Univisual - la differenza di valore va costruita non solo sugli aspetti tangibili e concreti relativi all’offerta, quanto piuttosto intervenendo su dimensioni valoriali ed emozionali”.

In una sola parola, occorre puntare sulla ‘marca’, intesa - come scrive il professore nel suo libro ‘Brand Identikit’ - come “quell’entità concettuale che, presidiando il territorio mentale di un individuo, evoca un insieme di valori predefiniti, determinando il posizionamento dell’azienda sul mercato”. Ecco perché, aggiunge Grizzanti, “si può dire che siamo entrati, a tutti gli effetti, nell’era della percezione”: un’era in cui a far la differenza, in termini di costruzione del valore che viene assegnato a una proposta di marketing, sono variabili percettive, non tangibili in senso letterale, capaci di identificare un modo di essere e di associare ideali ed emozioni a uno specifico brand, a prescindere dal prodotto o servizio che viene commercializzato.

In questo discorso, l’inconscio svolge un ruolo fondamentale: “Grazie a indagini scientifiche - precisa il professore - è stato confermato che il 90% dei nostri processi decisionali di acquisto risultano essere guidati non da dinamiche cognitive razionali, bensì da un insieme di reazioni istintive e inconsce”.

IL PROPRIO POSTO NEL MONDO

Ricapitolando, se l’oggetto - prodotto o servizio che sia - ha in sé un valore limitato e circoscritto, allora ad avere importanza è ciò che lo contiene, ossia la marca. Il ‘brand changing’, ossia il “processo di trasformazione di un marchio in una marca - spiega Grizzanti - è un percorso complesso e articolato, mirato a far evolvere il brand in una rappresentazione di un modo di essere e di pensare”.

Per procedere lungo questo asse evolutivo, è essenziale sviluppare una brand identity quanto più possibile forte, credibile, coerente e distintiva.“Le marche infatti - aggiunge il professore - sono dotate di caratteristiche che siamo soliti associare agli individui, come la personalità o i valori di riferimento. Ecco perché ogni azienda deve innanzitutto chiarire - prima a se stessa e poi a tutti gli altri, dai consumatori agli shareholder - il perché della sua esistenza, ossia qual è il suo posto nel mondo e qual è il ruolo sociale che intende assegnare alla propria marca”.

E questo ruolo non può certo essere limitato al semplice ‘fare profitto’, inteso come finalità unica, bensì deve essere un ruolo collegato a una qualche utilità: “Il brand, in passato molto demonizzato - precisa il ceo di Univisual - può assumere un ruolo di garanzia per la comunità, per il semplice motivo che, rispetto a ieri, l’operato delle aziende di marca è sempre sotto i riflettori, obbligandole ad agire correttamente sia dal punto di vista legale sia dal punto di vista etico”.

Il passaggio fondamentale, in questo senso, consiste nel definire ciò che la marca pensa sul mondo in cui vive, esprimendo un ‘credo’, che poi deve essere confermato, con coerenza, in tutte le occasioni di comunicazione, nei diversi touch-point tramite cui entra in connessione con le persone.

Questo concetto, chiarisce il professore, “si concretizza in una strategia di business quando il brand si pone sul mercato con una ‘personality’ autonoma, capace appunto di prendere posizione su temi non necessariamente legati al prodotto: un caso esemplificativo del passato è Benetton che, probabilmente con il sol scopo di impressionare il pubblico, comunicava facendo leva su temi etici globali, effettuando vere denunce sociali su argomenti delicati come il razzismo, l’Aids o la guerra. Per quei tempi fu qualcosa di pioneristico: ciò che l’azienda proponeva erano articoli di abbigliamento, ciò che in realtà vendeva era un brand. Penso si possa affermare che Benetton sia stato il primo vero caso italiano di strategia di business basata sul brand”.

Un esempio più recente, in quest’ottica, conclude Grizzanti, è Virgin, attivo in una molteplicità di aree merceologiche (dalle compagnie aeree alla musica, passando per i centri fitness): “Il brand è stato in grado di estendere il proprio mercato forse come nessun altro al mondo, vendendo un’idea associabile a centinaia di business differenti in modo credibile, proprio grazie alla sua capacità di evocare un ‘modo di essere’ autonomo dai prodotti o servizi che commercializza”.

Mario Garaffa