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OMD Talks. Chiara Tescari: "Perchè l'Artful Intelligence salverà il pubblicitario dall'Artificial Intelligence"
Non so voi, ma ogni volta che io mi imbatto sui social network in qualche meme o video divertente che prende in giro la categoria di 'noi gente-che-lavoriamo-in-pubblicità-e-siamo-di-milano-e-abbiamo-poco- tempo-da-perdere-e-non-siamo-in-grado-di-tenere-una-riunione-intera-senza-parole-in-inglese-però- salviamo-vite-umane', mi diverto sempre molto e mi trovo a pensare quanto sia ironico ritrovarci inconsapevolmente protagonisti, proprio noi, di un insight così vero. Insomma, più o meno inconsapevolmente.
In più, da qualche anno a questa parte, il mondo delle agenzie che operano nel settore della comunicazione e della pubblicità – così come il mondo del marketing in generale - è stato scombussolato dall’ingresso di un nuovo giocatore (o dovrei dire player??): la tecnologia. E le nostre riunioni, le nostre tavole rotonde, le nostre cene di lavoro, le nostre presentazioni in PowerPoint sono diventate un fioccare di data driven, real time, KPI, killer app, raw data, econometric models – giusto perché i brand value e le reason why non erano abbastanza.
Però c’è da dire una cosa: la lingua inglese ci facilita nel coniare neologismi che aiutano a semplificare il gran caos che la nostra categoria professionale sta vivendo. Ecco perché in OMD ci piace parlare di Artful
Intelligence, al posto di Artificial Intelligence.
La tecnologia è entrata con prepotenza nel nostro business ed è un attore molto egocentrico, che ci ha costretti a sollevare grandi interrogativi come “perderemo il nostro lavoro a causa dell’intelligenza artificiale?”; ha facilitato l’arrivo sul mercato della creatività di nuovi protagonisti, come le società di consulenza; ci ha costretto a mettere in discussione modelli di business consolidati da decenni.
Tutto è iniziato con i primi esperimenti dei programmatori con i codici, che hanno provato a giocare con i
primi messaggi interattivi e hanno disturbato l’idillio della coppia art director-copy writer.
Poi è stata la volta delle neuroscienze, che hanno invaso il territorio delle ricerche di mercato, insegnandoci come il nostro cervello reagisce quando guarda lo spot delle patatine. Nel frattempo, le fonti di dati si moltiplicavano esponenzialmente e, grazie a questo fatto, i marketer hanno iniziato a ragionare su come migliorare prodotti e servizi nel day-by-day delle persone e su come utilizzare i dati per personalizzare la propria offerta.
Infine, la fase più temuta: un algoritmo animato dall’intelligenza artificiale che crea un quadro di
Rembrandt centinaia di anni dopo la sua morte. Tutto così semplice, quindi? Si può definire creatività questa? O piuttosto “creazione”? Quell’algoritmo non ha mica avuto l’idea di dipingere un quadro con quello stile: ha studiato e riprodotto uno stile esistente, unico perché concepito da una personalità ben precisa. Questa case history fece discutere parecchio, e dopo di lei ne abbiamo viste altre che hanno utilizzato la tecnologia in modalità “creazione”. Già al Festival di Cannes di quest’anno, però, si è meglio delineata la strada che ci aspetta e i pubblicitari di tutto il mondo sembrano aver tirato il fiato: l’intelligenza artificiale non si sostituirà alla creatività, ma il suo ruolo sarà quello di amplificarla, di renderla più potente, in grado di raggiungere meglio e al momento giusto i destinatari del messaggio.
I casi più brillanti ne sono la testimonianza: raccontano o creano una storia in un modo che non sarebbe stato possibile senza tecnologia, ma che allo stesso tempo non sarebbe nato senza l’idea di una persona. Ecco perché è più corretto parlare di Artful Intelligence.
Non possiamo fare qualcosa di utile con i dati, senza un umano che li interpreti; ma possiamo inventare dei
nuovi modi fichissimi di usarli. Come Adobe, che quest’anno ha ricreato digitalmente i pennelli usati da Edvard Munch a beneficio degli utenti di Photoshop, che ora possono dipingere sui loro computer. O come
Samsung, che ha creato un’app in grado di diagnosticare la dislessia in pochi minuti e totalmente gratis. O come Budweiser, che ha trovato il modo di utilizzare foto di repertorio, che ritraggono alcune tra le più grandi star della musica mondiale mentre si bevono una Bud, ma che l’azienda non poteva utilizzare a causa dell’ingente ammontare dei diritti che avrebbe dovuto pagare. Grazie all’algoritmo di Google e ad un’idea umanamente geniale, è stato possibile produrre una campagna stampa e affissione che semplicemente suggerisse alle persone cosa cercare sul motore di ricerca. Et voilà (sì, ogni tanto usiamo anche il francese…) magicamente l’audience della birra è stata esposta alle agognate fotografie storiche. (Guarda nella gallery in allegato le immagini delle case history).
Insomma, il concetto di Artful Intelligence ci permette di mantenere il senso della nostra professione. Non
solo, ci fa capire che la sfida che ci troviamo ad affrontare nei prossimi anni è particolarmente stimolante: possiamo unire l’arte, la magia che è propria solo dell’inventiva umana, al potere e alla velocità e alla capillarità dei dati.
Questo sì che è un happy ending! Possiamo tornare a salvare vite umane.