Mice
Meet the Media Guru dà appuntamento il 23 marzo per parlare di 'Intelligenza Collettiva'
L'argomento, che grazie alla diffusione di piattaforme quali Userfarm, Linux o Wikipedia è sulla bocca di tutti, sarà affrontato in maniera approfondita da Stefana Broadbent. L'head of Collective Intelligence del Nesta inviterà a riflettere sul contributo del contesto sociale per la realizzazione dell'Open Knowledge.
Meet the Media Guru torna mercoledì 23 marzo (ore 19.30) con Stefana Broadbent, head of Collective Intelligence del Nesta, innovation charity inglese, per parlare di Intelligenza Collettiva.
Broadbent, laureata in Psicologia all’Università di Ginevra con PhD in Scienze Cognitive dell’Università di Edimburgo e un curriculum internazionale che spazia fra Svizzera, Regno Unito e Svezia, al Nesta esplora le nuove forme di sapere e problem solving che emergono dalla collaborazione fra istituzioni, organizzazioni e comunità.
Ma facciamo un passo indietro: cos’è e come si sviluppa la Collective Intelligence? «Il termine si riferisce al processo con cui gruppi ampi di persone mettono in comune il proprio sapere, le informazioni e le competenze di cui dispone per contribuire alla soluzione di problemi della società» spiega Broadbent.
«L’intelligenza collettiva – si legge nel documento – emerge quando c’è un equilibrio fra tecnologia, governance e obiettivi condivisi. La collaborazione lavora sul potenziale cognitivo che ci porta a pensare come una collettività e tendere verso finalità condivise. La tecnologia ha il compito di rendere visibile 'l’assemblaggio di informazioni' e di sostenere la trasformazione del sapere».
Con Broadbent parleremo di come questa risorsa sia oggi parte del Dna della società contemporanea grazie ai digital media. La Collective Intelligence è entrata nell’agenda dei governi, dei gruppi d’influenza e anche di migliaia di imprese private che la ritengo profittevole, oltre che utile: si pensi alla piattaforma di crowdsourcing per videomaker Userfarm appena acquisita dalla casa di produzione Filmmaster, oppure alle case histories emblematiche di Linux o Wikipedia).
Mentre l’Intelligenza Collettiva è sulla bocca di tutti, Broadbent invita a riflettere sulle basi che ne consentono l’espressione più completa, i requisiti senza i quali l’Open Knowledge non può realizzarsi.
Broadbent, laureata in Psicologia all’Università di Ginevra con PhD in Scienze Cognitive dell’Università di Edimburgo e un curriculum internazionale che spazia fra Svizzera, Regno Unito e Svezia, al Nesta esplora le nuove forme di sapere e problem solving che emergono dalla collaborazione fra istituzioni, organizzazioni e comunità.
Ma facciamo un passo indietro: cos’è e come si sviluppa la Collective Intelligence? «Il termine si riferisce al processo con cui gruppi ampi di persone mettono in comune il proprio sapere, le informazioni e le competenze di cui dispone per contribuire alla soluzione di problemi della società» spiega Broadbent.
«L’intelligenza collettiva – si legge nel documento – emerge quando c’è un equilibrio fra tecnologia, governance e obiettivi condivisi. La collaborazione lavora sul potenziale cognitivo che ci porta a pensare come una collettività e tendere verso finalità condivise. La tecnologia ha il compito di rendere visibile 'l’assemblaggio di informazioni' e di sostenere la trasformazione del sapere».
Con Broadbent parleremo di come questa risorsa sia oggi parte del Dna della società contemporanea grazie ai digital media. La Collective Intelligence è entrata nell’agenda dei governi, dei gruppi d’influenza e anche di migliaia di imprese private che la ritengo profittevole, oltre che utile: si pensi alla piattaforma di crowdsourcing per videomaker Userfarm appena acquisita dalla casa di produzione Filmmaster, oppure alle case histories emblematiche di Linux o Wikipedia).
Mentre l’Intelligenza Collettiva è sulla bocca di tutti, Broadbent invita a riflettere sulle basi che ne consentono l’espressione più completa, i requisiti senza i quali l’Open Knowledge non può realizzarsi.
Queste conditio sine qua non sono modelli di governance adeguati, soluzioni digitali innovative e salde relazioni sociali.
Senza una di queste condizioni, il meccanismo rallenta, si inceppa, smette di accogliere e implementare gli input utili a favore, ad esempio, di interessi singoli o pulsioni eterodirette.
Ancora una volta, l'elemento chiave della Digital Culture non è (solo) la tecnologia, ma la società.