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Replica di Annamaria Ruffini all'intervista a Roberta Cocco

Annamaria Ruffini, CMP President & Ceo Events In & Out, scrive una lettera alla redazione in risposta all'intervista pubblicata da e20 ed e20express a Roberta Cocco, direttore marketing centrale di Microsoft Italia, in occasione dell'uscita del suo saggio “La magia degli eventi” (vedi notizia correlata). Di seguito, ne riportiamo il testo.

Spettabile Redazione,


Ruffini_Annamaria1.JPGavendo letto l’ultimo numero della Vostra newsletter online, non posso esimermi da alcune riflessioni sull’intervista al direttore marketing centrale di Microsoft Italia, Dott.ssa Roberta Cocco, in relazione al suo saggio “La magia degli eventi” (vedi notizia correlata). Premessi i dovuti complimenti alla manager per l’autorevolezza che mostra nel trattare il tema, e senza voler nulla togliere al valore del libro (che non dubito sia interessante e completo), ho la sensazione che dietro le sue parole si annidi un brutto segnale per il sistema al quale noi organizzatori apparteniamo da una vita. (nella foto, Annamaria Ruffini).

A essere in discussione non è il nostro valore di professionisti. Anzi, indirettamente ce lo riconosce la stessa autrice, allorché per esempio fa il nome di alcune agenzie cui Microsoft si affida (e fra l’altro ho lavorato anche in una di queste).
No: quello che qui emerge in tutta la sua vacuità è la pretesa efficacia della rete di istituzioni, alleanze e potentati che da almeno trent’anni costituisce l’ossatura della meeting industry italiana. Una federazione (Federcongressi), otto associazioni, una dozzina di riviste, infiniti legami con gli enti locali, un ricco apparato scientifico… per quali risultati?

La prima stoccata ci viene dalle righe iniziali dell’intervista, nelle quali Roberta Cocco invoca «una certificazione chiara che attesti il lavoro e la professionalità delle agenzie e dei consulenti che seriamente svolgono questa professione». Deduco che sei lustri non ci sono bastati per comunicare alle aziende che le certificazioni esistono e sono ben tre, riconosciute in tutto il mondo: 1) il CMP (Certified Meeting Professional), erogato dal CIC (Convention Industry Council), interassociazione di categoria con sede a New York, a quanti hanno almeno tre anni d’esperienza e superano un selettivo esame scritto, (165 quesiti in inglese a risposta multipla) – vale la pena ricordare, a proposito, che a Singapore il CMP ha valore di esame di Stato e che negli Stati Uniti frutta a chi lo supera un aumento in busta paga del 30% lordo; 2) il CMM (Certification in Meeting Management), rilasciato da MPI (Meeting Professionals International, associazione di cui in Italia esiste un Capitolo molto attivo) a quanti lavorano da almeno dieci anni nel settore e superano una difficile prova d’esame incentrata sulla strategia. Ad aggiungere beffe al danno, questo CMM che le nostre imprese ignorano è stato inventato da un italiano, sì, da un italiano, Rodolfo Musco, già direttore marketing di Unilever e da molti anni titolare di un’agenzia d’organizzazione di eventi. In Italia questo certificato ce l’hanno appena in sette od otto, ma nel mondo si contano a migliaia: evidentemente predichiamo bene e razzoliamo male. 3) il CITE (Certified Incentive Travel Executive), erogato da SITE (Society of Incentive Travel Executives) agli specialisti dell’incentivazione, sempre dietro esame. Scusate la lezioncina, ma chissà mai che la newsletter e la rivista e20 siano mezzi più efficaci di altri nel far giungere queste notizie a chi di dovere.

Poche righe sotto inoltre, Roberta Cocco teorizza «l’importanza della progettazione alla base di un evento», come se la meeting industry italiana fosse ancora terra di conquista di operatori turistici che capiscono solo di alberghi e di vettori e tentano di compensare la propria pochezza strategica facendo il pieno di atout meramente organizzativi. Cari colleghi! La finiamo di farci rubare la scena dalle agenzie di pubblicità e di pr, che saranno bravissime nel loro mestiere ma che nello specifico degli eventi neppure sfiorano il nostro know how di specialisti? La smettiamo di etichettarci come “operatori del congressuale”, termine bolso che richiama solo una determinata tipologia di manifestazioni (quelle medico-scientifiche) e nulla dice a una clientela corporate potenzialmente vastissima e desiderosa di “magia degli eventi”? Vogliamo una buona volta scrollarci di dosso il nostro passato turistico e proporci a tutto tondo quali strateghi affidabili e preparati, gli stessi della cui esistenza Roberta Cocco e credo migliaia di altri manager vorrebbero essere informati?
Già che ci sono la dico tutta. Federcongressi finalizzerà ben poco la sua azione finché la limiterà ai soliti noti. Mi sembra già di sentire le obiezioni: 1) la federazione parla non alle persone ma alle associazioni che la costituiscono, e 2) non è vero che non guarda al di là dello steccato, perché l’anno scorso ha approvato gli standard professionali, raccomandandoli a tutti gli operatori del settore, corporate meeting planner inclusi.
Rispondo.
1) Le associazioni. A una precisa domanda della giornalista, Roberta Cocco afferma che nel «tentativo di classificare le associazioni di categoria» ha dovuto confrontarsi «con alti professionisti e affidarsi a Internet per reperire le informazioni». Sic! Mi sta bene che Federcongressi parli solo alle associazioni. Ma mi starebbe assai meglio se queste parlassero a tutti. Se facessero proseliti anche fra le aziende. E non a scopo di cassa, bensì semplicemente per allargare il giro. Trovo sconcertante che una dirigente del calibro di Roberta Cocco sia costretta a chiamare dei consulenti e navigare senza bussola sulla Rete per scovare i nomi di otto-associazioni-otto che da trent’anni fanno il bello e il brutto tempo (per che cosa a questo punto non lo so).
2) Gli standard professionali. Un volume di 108 pagine sovrabbondante di contenuto e chiaro come pochi. Dice tutto: ruoli, metodi, skill. È stato pubblicato l’anno scorso da Carlo Delfino Editore per concessione di MPI, con l’approvazione di Federcongressi, a cura del solito, instancabile Rodolfo Musco. Mi piacerebbe sapere come e quanto è circolato. Osservo solo una cosa: quando l’intervistatrice ha detto che «per chi opera nel settore eventi mancano standard di qualità e professionali», Roberta Cocco non ha battuto ciglio e ha riposto le speranze nei «giovani preparati e volenterosi che affrontano questa disciplina con metodo e tenacia». Capito? Prima facciamo uscire un capolavoro, e poi lo teniamo nascosto, guardandoci bene dal comunicarne l’esistenza ai top manager. I quali, detto per inciso, se lo leggessero capirebbero molte cose che l’esperienza, per quanto prestigiosa, non può spiegare. Per esempio, che un campionato mondiale di calcio, scientificamente parlando, non è un evento, perché ha lo scopo non di comunicare bensì soltanto di intrattenere (una bonaria tiratina d’orecchi anche a lei, dottoressa Cocco…).

Ultima stoccata, forse la peggiore. Roberta Cocco dice che «non esiste un’ampia letteratura sugli eventi». Cito i primi titoli che mi vengono in mente: Eventi e turismo, di G. Spezia, Bologna 1992; Il meeting planner, di Rodolfo Musco (chi è costui?) e Simonetta Canti, Milano 1995; I congressi: prodotto e mercato, di Giancarlo Fighiera, Milano 1998; Organizzare eventi aziendali, di Ugo Canonici, Milano 2001; Il sistema dei congressi e degli eventi aggregativi, di Gavino Maresu, Milano 2003; Le relazioni virtuose, di Claudio Maffei, Reggio Calabria 2005; Organizzare un convegno, di Morena Paola Carli, Milano 2007. Ed è solo una scelta, perché qui non posso fare il catalogo della mia libreria privata. A ciò si aggiungano i report annuali dell’Osservatorio Congressuale Italiano, realizzato dall’Università di Bologna, che dal 1992 – non da ieri dunque – riporta i numeri aggiornati degli eventi in Italia, nonché l’immensa pubblicistica delle riviste specializzate, che in teoria dovrebbero raggiungere le aziende in primis e che ormai hanno un repertorio di decine di migliaia di articoli su metodi, prassi e tecniche, calcolo del Roi compreso (ne è uscito uno recentissimo di Stefano Ferri, una delle firme più autorevoli).
Morale: perché buttiamo tanto patrimonio di persone e competenze nello stagno dei soliti visi, dei soliti personaggi, delle solite sterili polemiche? Non sarebbe meglio coalizzarci, valicare quella sorta di muro di Berlino che ci siamo stupidamente eretti e andare nelle aziende a comunicare che i migliori, nel mondo degli eventi, siamo noi? La rivista che qui ci ospita, e20, lo ha fatto. E ci ha costruito il suo successo. Sarà il caso d’imitarla?

Grazie dell’attenzione,

Annamaria Ruffini