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Aldo Biasi: i ‘primi’ 60 anni tra estro creativo, coraggio e visione

Il ‘Premio Alla Carriera’ assegnato al founder di ABC celebra sei decenni di innovazione e passione. Pioniere nel cogliere i cambiamenti e nell’interpretare creativamente i valori delle aziende, ha firmato campagne storiche e pluripremiate, costruendo rapporti di fiducia duraturi con i clienti. La creatività? Per lui deve essere sinonimo di semplicità, inaspettato e bellezza. Con questa intervista continua la pubblicazione, su ADVexpress, dei contenuti dedicati ai vincitori dei premi di ADC Group, protagonisti del numero di Maggio, Giugno, Luglio di NC - Nuova Comunicazione.

La prima edizione del Premio alla Carriera degli NC Awards viene assegnata ad Aldo Biasi, pioniere della creatività pubblicitaria italiana. In sessant’anni di carriera, Biasi ha contribuito a definire l’identità della comunicazione nazionale, firmando campagne premiate a livello internazionale e promuovendo una visione della creatività fondata su innovazione, rigore e rispetto per il consumatore. Nato a Bari nel 1945, inizia il suo percorso nel 1969 come copywriter nello studio Armando Testa. Da lì una rapida ascesa lo porta a ruoli chiave in agenzie come Benton & Bowles, Leo Burnett e Publicis/ FCB, fino alla fondazione della sua agenzia Aldo Biasi Comunicazione nel 1999. Ha ricoperto anche la presidenza dell’Art Directors Club Italiano. Il Premio assegnatogli da Adc Group celebra un professio- nista che ha saputo rinnovarsi nel tempo, mantenendo sempre viva la passione per la creatività autentica e di qualità. Come spiega lui stesso in questa intervista.

Con questa intervista continua la pubblicazione, su ADVexpress, dei contenuti dedicati ai vincitori dei premi di ADC Group, protagonisti del numero di Maggio, Giugno, Luglio di NC - Nuova Comunicazione.

 

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Cosa ha rappresentato per lei ricevere il Premio Editore ‘Premio alla Carriera’?

Un cattivo segno (sorride, ndr). Il sotto testo del premio alla carriera? “Quando ti togli dai...? Generalmente si dà a fine carriera, no? Mentre io mi sento circa a metà. Fuor di battuta, è un riconoscimento che inorgoglisce. Vuol dire che qualcosa è stato fatto bene, è stato costruito e qualche traccia lasciata.


Quasi 60 anni di carriera sono un traguardo straordinario: se dovesse riassumere in poche parole il filo conduttore che ha guidato il suo percorso, quale sarebbe?

In realtà ce ne sono due. Il primo nasce anche dai grandi maestri che ho avuto: la costante ricerca di qualcosa di nuovo. Non arrendersi mai alla banalità o alla soluzione facile, ma cercare sempre qualcosa di particolare. Un approccio che volte mi ha creato difficoltà, sia con i collaboratori - quante buone idee ho cestinato dicendo “ce n’è una migliore, no?” - sia con i clienti, quando insistevo su idee in cui credevo e loro non erano d’accordo. Il secondo percorso è la ricerca dell’indipendenza, strettamente legata alla creatività. Ho sempre voluto realizzare qualcosa di mio, per non dipendere dal giudizio altrui. Non volevo qualcuno che mi dicesse che un’idea non andava bene solo perché diversa. Il nostro lavoro è fatto di passione che spesso diventa convinzione, ostinazione, perfino gelosia verso ciò che creiamo. Nelle multinazionali della comunicazione, ho sempre sofferto i filtri: persone o dinamiche di sistema che si frapponevano tra le mie idee e chi doveva recepirle. Per questo ho sempre cercato un percorso dove la mia idea arrivasse direttamente al compratore, senza mediazioni. Quando hai un’idea in cui credi davvero, che ti rappresenta... e poi arriva uno che magari non è mai stato al cinema e ti dice “secondo me non va bene” ... lì si distorce tutto.

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Il premio le viene riconosciuto anche per la capacità di anticipare i cambiamenti: qual è il segreto per saper leggere i segnali del cambiamento prima che diventino evidenti?

Un segreto non c’è. Parlerei piuttosto di sensibilità. Sono sempre stato interessato alle cose nuove, a tutto ciò che è innovazione. Siamo stati tra i primi, ad esempio, a realizzare un video digitale per ‘La Coloreria Italiana’, pensato solo per il computer, quando ancora non esisteva YouTube. Era l’ ‘85 o ‘86. Avevo già com- prato i computer ai miei figli, quando quasi nessuno li aveva. Litigavo con il vicino che lasciava usare il pc al figlio solo un’ora al giorno: “Guarda che questi ragazzi vivranno sul computer”, gli dicevo. Sono stato uno dei primi a giocare con i vecchi joystick, e poi ho trascinato anche i miei figli. Insieme a mio figlio Matteo avevo persino immaginato un’agenzia totalmente digitale, senza uffici. Era troppo presto, e non ha funzionato, ma quell’idea dimostra che il ‘nuovo’ è nel nostro dna. Appena c’è qualcosa di nuovo, lo sento - a volte prima ancora che arrivi davvero - e poi lo vado a cercare. Tutto ciò che è già stato fatto, anche solo un anno fa, mi sembra vecchio.

 

Ha firmato alcune delle campagne pubblicitarie italiane più iconiche: c’è un progetto a cui è particolarmente legato, e perché?

Uno dei progetti più interessanti che abbia- mo sviluppato è stato quello per il riposizionamento di Conad. Abbiamo cominciato a lavorarci nel 2005-2006 e, ancora oggi, continuiamo a collaborare con una delle più importanti cooperative del gruppo. Un progetto creativo e strategico di enorme importanza: il celebre ‘Persone oltre le cose’. Ancora una volta, abbiamo in qualche modo anticipato i tempi. All’epoca, associare il concetto di ‘persona’ a una realtà della grande distribuzione era qualcosa di totalmente inedito... l’unico che parlava di persone era il Papa. Noi, invece, abbiamo scelto di affidare questo valore alla marca, rendendolo un elemento distintivo di una catena distributiva. L’obiettivo era superare l’idea che il supermercato fosse solo un luogo in cui riempire il carrello, provando a metterci anche un po’ di anima.

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È stato uno dei progetti più riusciti e significativi. Oggi, Conad è una delle insegne più importanti d’Italia, ma non lo era quando abbiamo iniziato. Abbiamo riposizionato il marchio in modo sostanziale, e questo è stato possibile anche grazie al cliente, che aveva visione, disponibilità e ambizione. Riposizionare una realtà come Conad, in un mercato dominato da concorrenti fortissimi come Esselunga e Coop, era una sfida ambiziosa. Ce l’abbiamo fatta. E ce l’abbiamo fatta tutti assieme. Tra le altre campagne a cui sono legato da un punto di vista affettivo, citerei quella per i gelati ‘La Cremeria’. Quella del “C’è Gigi?” – “No” – “E la Cremeria?”. Lo avevamo realizzato con Nanni Loy e il nome, Gigi, è nato semplicemente, perché non sapevamo quale usare. Io avevo un vecchio amico di scuola, del liceo, che si chiamava Gigi. E ho detto, perché no? E ormai, da un punto di vista nazional popolare...quel Gigi è perfino più famoso di chi lo ha inventato (ride, ndr).

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In 60 anni di carriera ha lavorato per aziende molto diverse: come si costruisce un rapporto di fiducia duraturo tra agenzia e brand?

Quando lavoravo nelle multinazionali, il rapporto di fiducia era economico. Trattavano i soldi... non le idee. Anche queste dovevano esserci, perché c’erano i creativi da giustificare... Poi, da indipendente, il rapporto di fiducia si è trasformato. Noi lavoriamo molto con aziende italiane, dove c’è ancora il proprietario, non un manager freddo e distante, che magari cerca solo di fare carriera per poi andare altrove. Dove c’è la proprietà, puoi costruire una relazione che va oltre la singola campagna, oltre al “quanto mi costi” o “mi piace o non mi piace l’idea”. È un rapporto dove ci si fida: tu sei sei vicino a me, conosci i miei problemi a fondo, conosci anche me come persona, come imprenditore. È una relazione personale, che consente di capire qual è davvero l’anima dell’azienda. E allo stesso tempo, il proprietario capisce i miei problemi, anche quando non condivide una mia proposta creativa. Ma cerca di capire: “Aldo, ti spiego perché non lo facciamo...” Il segreto, se vogliamo chiamarlo così, è costruire un rapporto che possiamo definire consulenziale, ma basato su una relazione di grande fiducia reciproca. Io mi fido del tuo prodotto, tu ti fidi dei miei consigli creativi. Stiamo bene insieme. E lavoriamo bene insieme.

 

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In un mondo dominato dalla tecnologia e dall’intelligenza artificiale, quale sarà, secondo lei, il futuro del lavoro creativo e della creatività?

L’intelligenza artificiale alza l’asticella per noi creativi. Quindi sì, rappresenta davvero una sfida. Perché riesce a fare molte cose come le faremmo noi, a volte anche meglio, e sicuramente in modo più veloce. E a volte introduce anche elementi ‘ideativiinaspettati e interessanti. Noi creativi siamo chiamati a progettare e immaginare cose talmente nuove da superare l’AI. Dobbiamo andare sempre più in alto, e anche essere più strategici: lavorare non solo sulle informazioni, ma soprattutto sui valori. Perché i valori del prodotto, o il valore aggiunto che quel prodotto può portare nella vita delle persone, quello, l’intelligenza artificiale non te lo dà. Lo dobbiamo mettere noi.

 

Nel corso della sua carriera ha ricevuto importanti riconoscimenti internazionali, come i Leoni a Cannes e gli Andy Award of Excellence: quanto contano i premi per un creativo?

Io faccio sempre una battuta: tutte le volte che ho vinto un premio, ho perso il cliente. All’estero, soprattutto nel mondo anglosassone, quando un creativo vince un premio, viene considerato un buon professionista, uno che lavora bene. In Italia, invece, succede l’opposto: siccome hai vinto, si scatena l’invidia. Vuol dire che hai fatto quella cosa per te stesso, non per l’azienda, per soddisfare il tuo narcisismo. A parte questo, vincere un premio significa che hai lavorato bene. Sei uscito dal gregge. Sei riuscito a essere diverso, distintivo, in qualche modo. Per un artista, giusto per usare un paragone esagerato, il miglior premio è quando qualcuno compra la sua opera. È l’asta. Se uno sconosciuto compra il tuo quadro, se qualcuno vuole esporre la tua scultura, o pagare tanto per averla, significa che quell’opera è amata. Per noi è la stessa cosa: la statuetta è la prova che quell’opera è stata riconosciuta. Che è stata amata.

 

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Che consiglio darebbe a un giovane che oggi vuole intraprendere una carriera come la sua? Una volta ero in grado di dare dei consigli, perché c’erano strade abbastanza tracciate. Dicevo: leggi questi libri, fai un apprendi- stato vicino a un creativo riconosciuto e bravo...La strada era quella della gavetta vera. La preparazione era la gavetta. Oggi, è un po’ più complesso, perché i nuovi maestri sono i social: non i fruitori dei social, ma i proprietari. E allora, cosa direi a un giovane creativo che vuole fare advertising? Ogni volta che comunichi qualcosa per un prodotto, devi fare in modo che quella comunicazione riesca a farlo amare. Usa immagini, parole, musiche, tutto quello che vuoi... ma fai in modo che quel prodotto sia desiderato dal potenziale cliente. Inoltre, direi: non accontentarti. Il segreto è guardarsi attorno e chiedersi, come ho sempre fatto io: “Dove stanno facendo qualcosa di meglio? Cosa sta succedendo di interessante là? Fammi provare”.

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Cosa c’è nel futuro, nei prossimi 60 anni di Aldo Biasi? Mi piacerebbe tanto fare l’influencer. A volte il mio mestiere diventa routine... Mi piacerebbe affiancare l’attività del creativo, del comunicatore, un’attività di dialogo con il consumatore. Ci sto lavorando, anche perché la cosa che mi divertirebbe di più sarebbe criticare la pubblicità degli altri (sorride, ndr).

 

Quindi, per concludere, se dovessimo scegliere tre parole-guida per la creatività oggi?

Partirei dalla Semplicità. Armando Testa diceva: “È difficilissimo essere semplici, perché si rischia di essere elementari”. La semplicità è un’operazione di sintesi: devi riuscire a comunicare un concetto complicato in modo che uno lo colga, lo capisca. Poi c’è l’inaspettato: sentire qualcosa che non ti aspetti attiva la tua attenzione. E, infine, la bellezza. Non bisogna mai dimenticare l’estetica delle parole e delle immagini. È fondamentale.