Editoriale
Concato: 'Torniamo a considerare le agenzie elemento imprescindibile del mercato'
In seguito alle recenti elezioni per il rinnovo delle cariche di AssoComunicazione per il prossimo triennio, Andrea Concato riflette sullo stato dell'arte del mercato della comunicazione in Italia, mettendo in luce problemi e possibili soluzioni. E invitando a ridare alle agenzia l'importanza che meritano. "E’ tempo che le agenzie rientrino in gioco nei processi a monte. Solo così potremo migliorare questo stato di cose che tanti imbarazzi crea ogni volta che viene osservato e giudicato da un mercato più evoluto del nostro".
In seguito alle recenti elezioni per il rinnovo delle cariche di AssoComunicazione per il prossimo triennio, Andrea Concato riflette sullo stato dell'arte del mercato della comunicazione in Italia, mettendo in luce problemi e possibili soluzioni. Pubblichiamo di seguito il suo intervento.
Si sono tenute le elezioni in Assocomunicazione. Io, come credo molti, ho apprezzato la pubblica diffusione di opinioni e di programmi in onda. Ci sono stati candidati con programmi determinati e bellicosi. C’è stato un certo dibattito.
La mia associazione, l’Adci che raggruppa un numero notevole di creativi in posizioni front end, attraverso il suo presidente Massimo Guastini cerca, costruisce e offre confronto.
Mi permetto di ricordare ancora una volta che sono i creativi quelli che producono la merce che le agenzie offrono al mercato. Sembra incredibile ma a volte si tende a dimenticare questo dettaglio fondamentale, sommersi come siamo da network, relazioni, introduzioni, deal, bartering, trading,
negoziazioni, rinegoziazioni, presentazioni e chi più ne ha più ne metta.
Quella che racconto qui è un’osservazione sullo stato delle cose. Non è positiva. E dovrebbe cambiare.
In mezzo a tutti i motivi per cui la qualità della comunicazione italiana è modesta - lo stato pietoso della cultura e dei riferimenti, la scarsa competenza e cultura della marca nella maggior parte delle aziende, la perdita di statura delle agenzie in stato di bisogno, la solita ‘improfessionalità’ improvvisata così italiana, la confusione fra comicità e ironia, ma anche molto altro - ne noto uno relativamente recente. Ci affligge da una decina di anni.
Da quando i clienti internazionali hanno spostato fuori Italia i centri di management strategico. Da quando la finanza straordinaria interessa sempre più frequentemente la vita delle aziende italiane più importanti. Fusioni, acquisizioni, quotazioni, cessioni di rami d’azienda, famiglie che vendono,
famiglie che si ricomprano, generazioni che si succedono. E sono entrati in campo i nuovi campioni del business: fondi istituzionali, fondi di private equity, grandi studi di avvocati d’affari, grandi società della consulenza.
Nessuna di queste entità ha una cultura neanche minimamente paragonabile alla nostra in quanto a conoscenza aggiornata del mercato e delle persone, degli umori, delle relazioni e della comunicazione di marca. Eppure, essendo come sono popolate da elementi di alto livello, a volte eccellente, è nelle loro sale riunioni che si delineano sempre più i programmi strategici e commerciali delle marche, si fanno politiche di prodotto e di prezzo, si tessono accordi distributivi, si posizionano linee.
Le agenzie arrivano sempre più tardi in questo processo, a riunione quasi terminata. A loro viene sempre più frequentemente chiesto di aggiungere solo “un’ideuzza brillante” a un processo strategico già deciso. Conosco bene le formule che i disinvolti capitani del private equity tendono ad applicare quando entrano in un’azienda appena conquistata, mi ci sono trovato spesso in mezzo.
Tagliano un certo numero di teste contando sulla assenza di sentimenti, si liberano del magazzino obsoleto rifilandolo da qualche parte, magari terzo mondo, rinegoziano il debito con le banche, perché sono le stesse che hanno fornito loro la leva finanziaria per l’acquisizione, fanno un po’ di
sinergia con le altre aziende possedute dal fondo, pompano dentro un po’ di soldi, rilanciano la rete commerciale. Orizzonte temporale: cinque, sette anni. Poi o quotazione o vendita. A un concorrente se va bene, a un altro fondo se va meno bene.
Parole mai sentite: creatività, creazione di valore, costruzione o difesa dell’identità della marca, dialogo con le persone sui valori. E al termine del processo, si chiama l’agenzia, chiedendo “un ideuzza brillante”, magari con un comico. “Chi è il testimonial?” “Com’è la battuta?” in un continuo avvitamento nel banale televisivo che poi ci troviamo intorno, anzi, che fra poco a furia di sommergerci raggiungerà il livello del naso.
Non sembra possibile che gran parte del mercato sia regolata da procedure e ragionamenti così rozzi. Ma è così. La prova è semplicissima. Basta accendere la tv in un qualsiasi break pubblicitario.
E’ tempo che le agenzie rientrino in gioco nei processi a monte. Che siano considerate elementi imprescindibili del mercato. Per un motivo semplice. Perché lo sono. Solo così potremo migliorare questo stato di cose che tanti imbarazzi crea ogni volta che viene osservato e giudicato da un mercato più evoluto del nostro.
Si sono tenute le elezioni in Assocomunicazione. Io, come credo molti, ho apprezzato la pubblica diffusione di opinioni e di programmi in onda. Ci sono stati candidati con programmi determinati e bellicosi. C’è stato un certo dibattito.
La mia associazione, l’Adci che raggruppa un numero notevole di creativi in posizioni front end, attraverso il suo presidente Massimo Guastini cerca, costruisce e offre confronto.
Mi permetto di ricordare ancora una volta che sono i creativi quelli che producono la merce che le agenzie offrono al mercato. Sembra incredibile ma a volte si tende a dimenticare questo dettaglio fondamentale, sommersi come siamo da network, relazioni, introduzioni, deal, bartering, trading,
negoziazioni, rinegoziazioni, presentazioni e chi più ne ha più ne metta.
Quella che racconto qui è un’osservazione sullo stato delle cose. Non è positiva. E dovrebbe cambiare.
In mezzo a tutti i motivi per cui la qualità della comunicazione italiana è modesta - lo stato pietoso della cultura e dei riferimenti, la scarsa competenza e cultura della marca nella maggior parte delle aziende, la perdita di statura delle agenzie in stato di bisogno, la solita ‘improfessionalità’ improvvisata così italiana, la confusione fra comicità e ironia, ma anche molto altro - ne noto uno relativamente recente. Ci affligge da una decina di anni.
Da quando i clienti internazionali hanno spostato fuori Italia i centri di management strategico. Da quando la finanza straordinaria interessa sempre più frequentemente la vita delle aziende italiane più importanti. Fusioni, acquisizioni, quotazioni, cessioni di rami d’azienda, famiglie che vendono,
famiglie che si ricomprano, generazioni che si succedono. E sono entrati in campo i nuovi campioni del business: fondi istituzionali, fondi di private equity, grandi studi di avvocati d’affari, grandi società della consulenza.
Nessuna di queste entità ha una cultura neanche minimamente paragonabile alla nostra in quanto a conoscenza aggiornata del mercato e delle persone, degli umori, delle relazioni e della comunicazione di marca. Eppure, essendo come sono popolate da elementi di alto livello, a volte eccellente, è nelle loro sale riunioni che si delineano sempre più i programmi strategici e commerciali delle marche, si fanno politiche di prodotto e di prezzo, si tessono accordi distributivi, si posizionano linee.
Le agenzie arrivano sempre più tardi in questo processo, a riunione quasi terminata. A loro viene sempre più frequentemente chiesto di aggiungere solo “un’ideuzza brillante” a un processo strategico già deciso. Conosco bene le formule che i disinvolti capitani del private equity tendono ad applicare quando entrano in un’azienda appena conquistata, mi ci sono trovato spesso in mezzo.
Tagliano un certo numero di teste contando sulla assenza di sentimenti, si liberano del magazzino obsoleto rifilandolo da qualche parte, magari terzo mondo, rinegoziano il debito con le banche, perché sono le stesse che hanno fornito loro la leva finanziaria per l’acquisizione, fanno un po’ di
sinergia con le altre aziende possedute dal fondo, pompano dentro un po’ di soldi, rilanciano la rete commerciale. Orizzonte temporale: cinque, sette anni. Poi o quotazione o vendita. A un concorrente se va bene, a un altro fondo se va meno bene.
Parole mai sentite: creatività, creazione di valore, costruzione o difesa dell’identità della marca, dialogo con le persone sui valori. E al termine del processo, si chiama l’agenzia, chiedendo “un ideuzza brillante”, magari con un comico. “Chi è il testimonial?” “Com’è la battuta?” in un continuo avvitamento nel banale televisivo che poi ci troviamo intorno, anzi, che fra poco a furia di sommergerci raggiungerà il livello del naso.
Non sembra possibile che gran parte del mercato sia regolata da procedure e ragionamenti così rozzi. Ma è così. La prova è semplicissima. Basta accendere la tv in un qualsiasi break pubblicitario.
E’ tempo che le agenzie rientrino in gioco nei processi a monte. Che siano considerate elementi imprescindibili del mercato. Per un motivo semplice. Perché lo sono. Solo così potremo migliorare questo stato di cose che tanti imbarazzi crea ogni volta che viene osservato e giudicato da un mercato più evoluto del nostro.