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Italians do it better | Ghirlanda (BBDO): “In tutto questo rumore, la creatività fa la differenza”
C’è stato un periodo in cui andavano di moda perfino le t-shirt con la scritta ‘Italians do it better’. Uno stereotipo che, ammettiamolo, ci piace e che, nel mondo, ci accompagna da sempre. Ma quanto c’è di vero in questo slogan ammiccante? La creatività italiana ha davvero una marcia in più? Come viene percepita nel mondo? E come cambia, oggi, la figura di manager ‘made in Italy’ che operano in circuiti internazionali? Ne abbiamo parlato con Marianna Ghirlanda, ceo Bbdo in Italia, che guida le agenzie del gruppo dal 2018 e che, dal 2022, è anche presidente del capitolo italiano di IAA (International Advertising Association), all'interno dello speciale dedicato al valore competitivo dell’indipendenza e alla managerialità italiana, tratto dal numero di novembre, dicembre e gennaio 2025 di NC - Nuova Comunicazione.

Gli italiani lo fanno meglio. Quanto c’è di vero? E quanto conta la creatività ‘made in Italy’ nel mondo?
‘Italians do it better’ è, ovviamente, uno stereotipo alimentato dall’attitudine degli italiani a sentirsi migliori degli altri. Tuttavia, quando si parla di creatività, il ‘made in Italy’ ha un grande peso nel paniere internazionale, perché abbiamo alle spalle una fortissima tradizione che ha radici nella storia più lontana e possiamo annoverare nel nostro ‘portfolio’ innumerevoli case history di successo nei più svariati settori, dal fashion al lusso, all’automotive che rendono il ‘made in Italy’ riconoscibile e autorevole. Se, invece, parliamo di creatività legata al nostro settore, quello della comunicazione, abbiamo certamente delle punte di eccellenza in tanti contesti internazionali, ma sono convinta che vi sia ancora molto spazio per crescere.
Quali sono i punti di forza che rendono i creativi del nostro Paese unici? Quali stereotipi, invece, possono penalizzarci?
Oltre alla già citata tradizione, abbiamo un vantaggio: la nostra formazione si fonda sul continuo stimolo dato da una quantità di cose belle che non esistono da altre parti. Parlo di paesaggi e opere d’arte che ispirano e formano le menti e il gusto e ci insegnano il senso di ciò che è bello e di valore.
D’altra parte, invece, lo stereotipo che va abbattuto è quello legato a un’idea di italianità pigra, della combo pizza & mandolino, di un vissuto che si fonda sull’immaginario di film che ci hanno resi famosi nel mondo come la patria della mafia, ‘Il Padrino’ primo tra tutti. Ecco perché ci te- niamo molto a trasmettere un’idea di ‘made in Italy’ autentica e non stereotipata.

Come si declina la relazione tra mercato locale e rapporto con il network inter- nazionale? Quali margini di libertà per esprimere il proprio approccio vengono concessi?
Negli ultimi decenni la concentrazione dei marchi in grandi holding ha cambiato il modo in cui lavorano le aziende. Molti brand italiani sono entrati in circuiti internazionali di corporation per cui, spesso, l’Italia è sì un mercato, ma neanche uno dei primi. I margini di libertà sono perciò venuti meno, si sono indeboliti. Nel settore dell’adv si tenta sempre più di efficientare la comunicazione guidata dai mercati globali riservando pochissimo spazio a quelli locali. Spesso le direttive arrivano dall’estero e vanno semplicemente tradotte senza un contributo originale. La sfida si gioca a livello organizzativo ed economico. Dove possiamo fare la differenza? Con i grandi brand italiani che hanno tanta influenza culturale all’estero.
Come si è evoluto, oggi, il lavoro di un manager italiano alla guida di un network internazionale? Purtroppo, si è evoluto da un ruolo di guida gestionale e carismatica di leadership a un ruolo di gestore finanziario, perché le holding si stanno trasformando in holding finanziarie. È tutta una questione di equilibrismo tra interessi globali e locali. Il nostro obiettivo, oggi, è mantenere il più possibile il valore in Italia per quanto riguarda i talenti e il peso economico per far sì che il nostro Paese non sia sfruttato dall’estero. Parliamo di talenti, perché produciamo lavoro intellettuale e creativo. E desideriamo mantenere quanto più possibile questo valore in Italia, esportandolo dall’Italia verso l’estero e non viceversa, per un discorso protezionistico. Anche se, ovviamente, in tutto questo l’economia ha un peso.

In termini di risorse umane come è organizzata la sua struttura? Come stanno evolvendo i profili per rispondere alle richieste del mercato?
Negli ultimi 10 anni le strutture di comunicazione si sono evolute più che negli ultimi 100. Questo perché devono necessariamente riflettere ciò che succede fuori, e ciò ha portato a una ricerca di competenze inedite. La frammentazione estrema dei mezzi di comunicazione ha fatto sì che se prima era sufficiente avere una creatività monocanale, oggi dobbiamo averne molte di più, con specificità e complessità tecnologiche che hanno richiesto la ricerca di nuove competenze, per non parlare di tutto il nuovo discorso di gestione dei dati di mercato. Le nuove figure posseggono un background umanistico - che resta sempre fondamentale - ma si affiancano a competenze tecnologiche e matematiche di analisi del dato.
Parliamo di comunicazione ed engagement. Quanto comunicazione e creatività sono centrali per far crescere il business? Qual è oggi la chiave di volta per coinvolgere i diversi target?
Parlerei di attenzione, più che engagement. Perché è la currency che oggi di troviamo tutti a fronteggiare è quella dell’attenzione, sempre più difficile da ottenere a causa della sovrapposizione di stimoli, del modo in cui ci intratteniamo in un tempo sempre più articolato e complesso e costellato dalla presenza di device. Ed ecco che è la creatività a fare la differenza. La comunicazione è stata e sarà sempre di più la leva principale per far crescere il business delle aziende. Oggi comunicano tutti ed è anche possibile farlo con budget molto ridotti. In tutto questo rumore, la creatività è l’elemento centrale. Primo, per essere visti, secondo creare engagement. La chiave di volta è una creatività non solo come siamo abituati a concepirla come idea creativa di contenuto, ma una creatività che applichiamo al modo in cui pensiamo la comunicazione. Basti pensare, ad esempio, a come stanno crescendo la live comunication, e le activation. A essere fondamentale è il mondo in cui come intercetti l’utente ed entri in contatto con il tuo target.

AI, sostenibilità e uguaglianza di genere. Qual è la sua posizione e quella della sua azienda in merito a tali temi?
Sono tematiche per cui oggi non si può scegliere, sono necessariamente integrate nel mondo della comunicazione. Nell’ambito di sostenibilità e uguaglianza di genere siamo da sempre una delle realtà che, per portfolio, ha tanta esperienza in quest’area, con tanto impegno aziendale anche a livello di team. L’AI la utilizziamo, ma cerchiamo di essere cauti. Non perché la temiamo a livello tecnologico, ma perché vi sono dei limiti a livello normativo. Stiamo studiando con attenzione la normativa che viene messa in atto e ne siamo molto ripettosi. L’AI non è di per sé un’idea creativa, perché richiede un pensiero umano alla base, è uno strumento potentissimo ma va trattato con estrema cautela nel rispetto dei diritti delle normative. E, soprattutto nel rispetto dell’utente finale. Perché ci porta in un mondo in cui non possiamo più credere a ciò che vediamo. E la fiducia è fondamentale per creare un’autentica connessione con gli utenti.
SERENA ROBERTI