NC
NC n.98 | NC Digital Awards 2022. Il futuro? Tra contenuti e omnicanalità. L’analisi dello scenario digitale per proiettarsi nella comunicazione di domani
Gli NC Digital Awards non sono solo l’occasione per premiare la migliore comunicazione digitale italiana, ma anche per analizzare lo scenario digitale. L’ambiente digitale pervade ogni atto di comunicazione, ritagliandosi una quota sempre più crescente nel media mix delle aziende e considerando che lo scenario è sempre più omnichannel, quanto conta ancora la creatività per coinvolgere il pubblico di riferimento e creare valore per la marca?
Di questo si è parlato durante la prima tavola rotonda alla quale han preso parte Alberto Dal Sasso, southern europe cluster leader Adintel - Nielsen; Fabrizia Ciccone, media, digital & pr manager Star; Pasquale Ascione, ceo H48 e Massimo Fontana, chief customer officer Mint. “Avere una strategia per il digitale è come avere una strategia per l’energia elettrica - ha esordito Dal Sasso -. Non occorre più esplicitarlo, dev’essere un dato di fatto. Il digitale è ormai primo mezzo, e i confini tra i media si sono ormai sgretolati. Parliamo per esempio dei dati video adv: fino a qualche anno fa, il 56% era dato dalla linear tv e solo un 3% dalla connected tv (inclusa l’addressable tv), ma le stime dei tassi di crescita di questo tipo di tv parlano di un +250% nel giro di pochi anni. Solo negli Stati Uniti si stima una crescita del 20-30% nei prossimi 4 anni”.
I valori da comunicare per le aziende però sono sempre gli stessi: fiducia nel consumatore, attivismo, cioè impegnarsi per delle cause concrete e reali (ambiente, sociale, economy...), e coerenza, tanto che il 70% di chi investe in social adv coinvolge figure di brand ambassador per valorizzare i propri contenuti. “Al centro di ogni attività marketing o branding ci dev’essere sempre l’uomo - ha aggiunto Ciccone, qui in veste anche di presidente della Giuria degli NC Digital Awards -. Bisogna ripartire dal consumatore, in un contesto sempre più in cambiamento. Per questo si deve mantenere una mentalità aperta, per surfare in un contesto come questo, ibrido. Il primo a essere ricettivo, aperto è proprio il consumatore, che si butta senza paura in quello che continuamente viene offerto dalla società. Il digitale ha ibridato i mezzi tradizionali, sì sconvolgendoli, ma anche rendendoli più alla portata di tutti. Perché alla fine ciò che conta è instaurare una relazione con il consumatore: prima la comunicazione era top down, oggi tutto è conversazione, bidirezionale. E qui entra in gioco la creatività, per entrare nella testa e nel cuore del consumatore, che oggi è anche creator”.
C’è da fare un distinguo però tra multi-channel e omnichannel approach: “Sì, quello che si faceva prima era studiare contenuti diversi, idee creative diverse con approcci diversi. Oggi invece c’è sinergia tra tutti i media”, ha concluso Ciccone. “Omnicanalità potrebbe a questo punto essere intesa come il comprendere i confini di un mondo sconfinato - ha commentato Ascione -. Oggi, è superata l’idea che un canale abbia un target che lo identifichi: chi è sui social, guarda anche la tv. Per questo, è ancora più importante che alla base della comunicazione vi sia il content”.
E come si unisce la creatività al conte- nuto? “Il metodo creativo non è di fatto cambiato, il procedimento con cui approcciare la creatività è sempre lo stesso, ma è cambiato il contesto, più sfaccettato - ha precisato Ascione -. Vero è che non si può prescindere dagli influencer, o meglio i creator, una leva che ha grandi potenzialità, ma che nasconde tante insidie, come la qualità, che oggi è viziata dai trend o da degli strumenti tecnici, che ne falsificano la veridicità, e questo va a inficiare anche la trasmissione della brand essence. Compito di agenzie come la nostra è quella di fare da brand guardian, mediando tra l’identità del creator, rispettandolo nel suo linguaggio, nel suo mondo, nei suoi valori per i quali lo abbiamo scelto, e i valori e l’identità dei brand”.
Una rivoluzione, quindi, nel linguaggio e nella comunicazione, velocizzata dalla tecnologia: “Come Mint, siamo un provider di tecnologia che permette di passare dalle best practice, la multicanalità, alle next practice, l’omnicanalità - ha spiegato Fontana -. Si sta assistendo alla trasfor- mazione della réclame in una big spoke experience: prima bastava lo slogan ‘Lava più bianco’, ora occorre dimostrarlo (l’influencer, ndr). L’omnicanalità parte da una perfetta conoscenza del consumatore, che va messo al centro, va ingaggiato. Il consumatore non compra più pubblicità, ma rilevanza, ovvero l’insieme di tecnologia, conoscenza del consumer e creatività”. Come ha precisato Fontana, la vendita è emozione e la comunicazione deve emozionare. A monte, sempre il digitale, che oggi rappresenta un punto di partenza, anche per le pubblicità ‘analogiche’. Fondamentale però non far suonare tutti gli strumenti (media) singolarmente, ma essere in grado di orchestrarli. Oggi la ‘bacchetta’ del direttore d’orchestra è fatta di algoritmi capaci di orchestrare i diversi canali. La mission di Mint è proprio questa: orchestrare tutti i canali digitali per consentire agli advertiser di gestire da un’unica interfaccia gli investimenti media su tutte le piattaforme AdTech in ottica cross-canale (Search, Social, Display, Video, Native, Affiliation, Programmatic Radio, Addressable TV, ecc.).
E per vagliare i risultati? “Gli insight sono ancora un metodo di misurazione un po’ vintage - ha concluso Fontana -. L’omnicanalità richiede una buona orchestrazione di tutti i canali e un media planning non più statico, ma liquido, che consenta di cambiare strategia in essere: ecco perché occorrerebbe una misurazione più immediata”.
Casadei (Web Stars Channel): “Per ingaggiare le persone, puntate su experience che facciano sognare” Oggi più che mai i brand guardano al mondo dell’influencer marketing come un vero e proprio media da sfruttare a fini commerciali. Ma il punto è: sono in grado di riconoscerne i vantaggi? E, soprattutto, sanno come ingaggiare in modo performante ed efficace influencer e creator? Durante il talk ‘Creator versus Influencer. E il valore del brand dove lo mettiamo?’, Luca Casadei, founder Web Stars Channel, la prima creator media company nata in Italia, ci ha aiutati a comprendere ruoli, significati e potenzialità dell’influencer marketing.
“Nell’ambito business - ha spiegato -, per semplificare possiamo dire che tutto rientra sotto il cappello dell’influencer marketing, ma le verticalità sono molto specifiche. L’influencer porta sui social il suo seguito e tendenzialmente promuove i prodotti come fossero le telepromozioni di un tempo. I creator sono nativi digitali che nascono già con i contenuti video, sono creativi che trasmettono il loro sapere o un intrattenimento nel formato digital perché ne conoscono la grammatica e le regole. La loro presenza online è caratterizzata da verità e autenticità, hanno uno storytelling in cui ci si può immedesimare. Spesso, invece, le ‘promozioni’ fatte dagli influencer sembrano più delle ‘marchette’ perché non padroneggiano gli strumenti del web e tentano di replicare altri linguaggi come, ad esempio, quello della tv.
Faccio un esempio: quando ho preso Frank Matano, oltre a lui c’erano solo Willwoosh e Clio MakeUp ed erano persone normalissime, ti sentivi uno di loro. Nel 2012 ho deciso di scegliere 10 volti che rappresentassero vari settori e scelsi il classico ragazzo della porta accanto che si posizionava allo stesso livello degli utenti. Amava giocare ai videogiochi e si chiamava Lorenzo. Oggi, è conosciuto come Favij ed è diventato una star, facendo sognare tanti ragazzi mostrando che ciascuno di loro, come lui, poteva riscattarsi. Questi sono i creator”.
Ma come hanno reagito i brand all’arrivo di questo nuovo mercato? “All’inizio è stato complicato. Prima di tutto, perché i follower dei creator non accettavano intrusioni commerciali, vedevano i contenuti branded come qualcosa di finto e ‘venduto’. Poi quando hanno capito che quello del creator è un vero e proprio mestiere, hanno imparato ad accettarli. La vera differenza la fa la modalità con cui un brand si inserisce nel mondo del creator. I primi anni è stato difficile far capire ai brand che i format a cui erano abituati non sarebbero stati efficaci. Non si poteva recitare un copione con l’effetto della telepromozione. Facevi grandi numeri, ma non facevi numeri per i clienti che venivano emarginati e messi all’angolo. Quando, invece, i clienti hanno capito che dovevano lasciare carta bianca ai creator per farli entrare nel loro storytelling per come realmente l’avrebbero vissuto, la ruota ha cominciato a girare”.
La chiave è che il vero kpi da vendere aL cliente sono dei brand lovers. Come puoi realmente dare dei brand lovers al cliente? “Il primo a esserlo deve essere il creator stesso. Il creator deve amare il brand o farsi comunque appassionare dal prodotto veicolato conoscendone la natura per poi far uscire la magia. Solo in quel caso spariscono le forzature e tutto diventa par- te del racconto. Ciò che funziona meglio sono le experience, le leve più potenti per ingaggiare il target. Se il brand mette a disposizione del creator experience incredibili, lui diventa una sorta di traghettatore, un facilitatore che porta alla scoperta del brand e di tutti i suoi valori. E questo lo ottieni con un percorso strutturato”.
Quali sono, quindi, i consigli che possiamo dare ai brand per collaborare in modo efficace con i creator? “Oggi consiglierei a un brand di scegliere creator che condividano argomenti e valori affini, che abbiano un buon match making con il brand, che sia vicino alla sua natura e lo faccia emozionare. Mettete il creator seduto al tavolo a condividere la creatività con voi, lavorando insieme per creare uno storytelling su misura”. Un mondo in grandissima e rapida espansione che può dare risultati davvero interessanti. “Per darvi un’idea dei numeri: circa due anni fa abbiamo lanciato ‘Defhouse’, una sorta di hub di formazione con otto creator resident che divulgano contenuti e valori. Sono molti i brand che collaborano con noi e con cui creiamo experience studiate ad hoc, come, ad esempio, quella con Tommy Hilfigher che ha fatto vivere ai nostri talent un’esperienza di viaggio incredibile alla Fashion Week di New York. Il prodotto era in secondo piano, il focus non era sull’abbigliamento, ma ciò che hanno vissuto è stato talmente cool che il brand e i prodotti diventano automaticamente cool. Il primo anno Defhouse ha fatturato 500 mila euro in un anno. Oggi, fattura 350 mila euro al mese. È un format estremamente efficace, perché le persone si sentono vicine ai creator e ai brand stessi”.
Davide Riva