Editoriale
Cappuccino & cornetto. "Se la musica rock fosse dipesa dall'Auditel, non avremmo avuto i Beatles"
Qualche giorno fa Sandro Curzi, membro del
cda della Rai ha lanciato la proposta degli stati generali di chi la tv la fa.
Ieri, il Ministro Gentiloni ha presentato i contenuti del
progetto di riforma della Rai. Il problema della governance della televisione
pubblica è un tema aperto, quanto scottante, perché ha a che vedere con il
ruolo, la funzione e missione della tv. Tuttavia c'è un tema che attraversa il
dibattito, è il tema della qualità dei programmi televisivi. Su questo è nata,
più che un'intervista, una conversazione con Emanuele Pirella
, Eccola.
Marco Ferri:- Come nel calcio, si parla spesso di televisione
giocata, cioè di quella di chi la fa e di televisione parlata, cioè di quella
che è in mano alla politica, alla pubblicità, all'Auditel. Nella sua intervista
a Off (quotidiano di spettacolo, ndr), Sandro Curzi, consigliere Rai lancia la
proposta di un confronto tra gli operatori della tv pubblica, che veda i
politici puri spettatori, seduti a prendere appunti. Invitati a non parlare, ma
ad ascoltare. Curzi dice che "abbiamo il problema di definire cosa deve essere
la televisione pubblica nell'era della globalizzazione". E' davvero questo il
punto centrale ?
Emanuele Pirella:-Prima di dire qual è il
problema, e se il problema è uno soltanto, bisogna vedere qual è la realtà in
cui opera la tv pubblica. La liberalizzazione dell'etere diede vita alle tv
libere, che poi si definirono private e infine divennero commerciali. Cambiò la
percezione del pubblico dei telespettatori. Se prima la tv si rivolgeva ai
cittadini, strada facendo ha cambiato obiettivo. Ora si rivolge ai consumatori.
Su questa idea, potremmo dire di antropologia commerciale, si è sviluppata la tv
in questi anni. La Rai ha inseguito gli ascolti prodotti dalla tv commerciale,
omologandosi alle logiche di raccolta pubblicitaria, rinunciando al suo ruolo
nella società.
Marco Ferri:-La dittatura della quantità
sulla qualità, l'impero di Auditel.
Emanuele Pirella:-Se il
solo obiettivo diventa quello di raggiungere potenziali consumatori del
programma, che a sua volta agevoli gli ascolti dell'inserzione pubblicitaria,
per rendere appetibile agli investitori il palinsesto, è chiaro che i programmi
devono diventare rassicuranti, una specie di massimo comune multiplo, una sorta
di grande contenitore che autoalimenti gli ascolti. In questo modo si è cercato
di rendere "misurabile" l'investimento pubblicitario, il cosiddetto "costo per
contatto", che Auditel certifica con i suoi dati.
Marco
Ferri:-Però
Auditel emette dati segmentati per target, in base alle fasce orarie. Quello che
non si capisce è a che servirebbero trasmissioni con milioni di ascolti, quando
all'investitore servirebbe un profilo più ridotto, per non sprecare contatti
utili.
Emanuele Pirella
:-In effetti questo appare un paradosso tutto italiano.
Nell'attuale sistema sprecare contatti utili sembra un male accettabile,
controbilanciato da una maggiore efficacia del rapporto
costo-beneficio.
Marco Ferri:-Ma siamo sicuri che la mediocrità della produzione televisiva
sia davvero utile a chi investe soldi nella pubblicità italiana?
Emanuele Pirella:-In un'intervista rilasciata pochi giorni
fa , Frank Lowe diceva che se la musica rock, l'arte contemporanea o
l'architettura moderna fossero stati sottoposti prima a ricerche e poi a criteri
valutativi del tipo di quelli proposti dall'Auditel, saremmo culturalmente
indietro di decenni. Qualità vuol dire rischiare, fare inchieste, sorprendere,
stimolare riflessione, ridefinire i gusti.
Marco
Ferri
:-Niente di tutto questo
sembra pervadere la tv pubblica.
Emanuele Pirella:-La
proposta di Curzi potrebbe essere utile, se volesse andare in questa direzione.
Noto che oggi, per esempio, la maggior parte dei programmi di intrattenimento
non sono più scritti, ma vengono semplicemente messi insieme. Una volta c'erano
i copioni, qualcuno li scriveva, altri li imparavano. Oggi c'è la "scaletta" da
seguire. Non conta quello che si dice, ma quante cose si riesce a mettere
insieme.
Marco Ferri:- L'intrattenimento è nemico della
qualità?
Emanuele Pirella:-La qualità non è sinonimo di
noia, di televisione pedagogica, educativa o prescrittiva. Qualità è sinonimo di
una tv legata alla realtà, alle sue contraddizioni, all'insieme condiviso o
contraddittorio divenire. E al modo di raccontare, di rappresentare, di
sperimentare nuovi punti di vista e linguaggi. Questo dovrebbe essere il solco
su cui si muove la comunicazione televisiva, ma anche il compito principale che
dovrebbe assumere su di sé la tv pubblica.
Marco Ferri:-Un
luogo comune vuole che la pubblicità è spesso meglio del programma che la
contiene.
Emanuele Pirella:- E' un felice paradosso
inventato da Oreste del Buono, che amava le molte forme di cultura popolare, dal
fumetto fino, appunto allo spot. In realtà, oggi succede che gli spot sono la
logica conseguenza della televisione che li contiene. Il conduttore del
programma, diventa il presentatore della televendita e contemporaneamente viene
pianificata la campagna di cui è testimonial proprio nei break pubblicitari del
programma medesimo. Un continuum che spesso frastorna il consumatore, sfinisce
il pubblico e rischia seriamente di infastidire lo stesso destinatario del
messaggio commerciale.
Marco Ferri:-La qualità in tv è un
bene o un male per la pubblicità?
Emanuele Pirella:-Le cose fatte bene sono sempre
un bene per tutti: per chi fa la tv, per chi fa la pubblicità, sono quel minimo
comun denominatore di cui parla, a ragione, Carlo Freccero. Una televisione
pubblica all'altezza dei tempi, fresca e attraente sarebbe una risorsa per il
Paese. Dunque per le aziende, e di conseguenza per i pubblicitari.