Editoriale
Concato: I creativi. Pregiudizi, potere, luoghi comuni e qualche distinguo
Alla vigilia dell’assemblea dei soci dell’Art Directors Club Italiano pubblichiamo l’intervento del nostro opinionista Andrea Concato, che mette in discussione alcuni luoghi comuni che caratterizzano il variegato pianeta della creatività.
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Sono ormai molti anni che gli argomenti centrali della comunicazione sono il denaro, i budget, i media, i testimonial con il loro compensi, le commissioni, i compensi, le quotazioni, i fatturati.
Avviene da quando la comunicazione, asset così cruciale per le aziende, ha iniziato a muovere un tal volume di ricchezza da attirare l’attenzione più sulla sua funzione economica che sulla sua funzione per l’economia.
Avviene da quando i creativi sono stati lasciati al centro della scena a continuare le loro performances, mentre il riflettore si è spostato nel proscenio che si è riempito di contorno interessato, per non parlare del retropalco, dei corridoi laterali, del bar, del foyer. E si sono riempite anche cantine e fogne.
Posso azzardare a dire che fino alla fine degli anni ottanta il denaro era la conseguenza di un lavoro ben fatto. Dopo è diventato lo scopo, in una tubazione la più breve possibile fra la disponibilità e l’incasso, e la più libera possibile dai diaframmi della serietà, dell’impegno, della qualità. Curiosamente e paradossalmente è oggi che tutti si lamentano della scarsità del denaro che circola nella comunicazione, non negli anni ottanta.
Non è difficile trovare in questa tendenza la vocazione alla sfiga e alla sconfitta. Se scali l’Everest a mani nude, molto probabilmente diventerai ricco. Ma non riuscirai mai a scalare l’Everest a mani nude se lo fai solo per diventare ricco. In più il sentiero è affollato da un esercito di mediocri dalle collocazioni più disparate che cerca di diventare ricco senza essere nemmeno riuscito ad arrivare al campo base. Il creativo è un magnifico esempio di economia sana. Quello che fa è solo cercare di farsi pagare il più possibile il proprio talento. Più talento, più ricchezza.
Ho ascoltato da poco l’intervista realizzata da ADVexpressTv al presidente dell’UPA Sassoli de Bianchi, stimabile e well raced imprenditore di alta qualità umana ed etica, in cui sosteneva che oggi il vero valore della comunicazione viene più da metodi e sistemi che da eccellenze di talento. Quando sono rinvenuto mi sono ripromesso di scrivere da qualche parte quanto non sono d’accordo. Eccomi: i metodi e i sistemi sono replicabili dall’informatica. L’opera d’arte, la bella poesia, musica, pittura, scrittura, la grande performance di architettura e di design, l’idea di creare la Porsche 911, le grandi campagne di comunicazione, no. Mi ricordo con ammirazione le parole del Prof. Ferdinand Porsche: "That’s why no Porsche will ever be designed by a committee, but by a handful of people inside these walls who know what a Porsche is".
Tuttora il lavoro che esce dalle officine dei creativi è il vero prodotto dell’intero comparto, anche se ha bisogno per lavorare al meglio del contributo di un possente back office di dati e pensieri. La massima attenzione del settore dovrebbe essere dedicata alla sua qualità. Perché la qualità creativa è capace di moltiplicare l’efficacia del denaro investito dalle aziende in comunicazione.
Sempre più gli effetti di un lavoro creativo eccellente possono essere la chiave di volta nella reputazione di una marca, nel successo di un prodotto, nei sentimenti delle persone per le aziende, nelle relazioni fra aziende e persone. Non è efficiente dedicare energie enormi solo all’ottimizzazione di una trattativa per l’acquisto di spazi se poi quegli spazi vengono riempiti con esecuzioni modali, ripetitive e invisibili.
Eppure mi rendo ben conto che la strada è lunga, che se metto sul tavolo le carte della serietà e della qualità posso perdere con chi fa balenare il Re di denari o lo scintillìo della Donna di cuori. Non mi dispero, perché so perfettamente che la qualità della comunicazione italiana migliorerà quando migliorerà la società italiana. Quando raggiungerà il livello di società più serie e progredite. Che non a caso producono una comunicazione migliore.
Ma come sono questi creativi? Senza addentrarmi in una panoramica metodica che prenderebbe troppo spazio e farebbe sparire metà dei miei amici su Facebook, mi piacerebbe provare a smontare alcuni luoghi comuni immarcescibili sul mio mondo.
Il nome. Riconosco che è a dir poco buffo. 'Creativi' non è un sostantivo, è un aggettivo. Nessuno altro mestiere si chiama con un aggettivo. Non esistono gli 'Eclettici' o i 'Precisi'. In più, nel business moderno, nessuno può nascondersi dalla necessità di essere innovativo, rapido e creativo. Ci sono poi creativi nella moda, nel graphic design, nello show business e in tanti altri campi. Perché i creativi siamo noi? Mistero. A me un po’ dà fastidio, ma quando cerco di specificare 'creativi che lavorano in comunicazione' la frase è talmente lunga che qualcuno si distrae. Ebbene. Il nome ormai è questo e ce lo dobbiamo tenere.
La qualità. Perché nessuno si sognerebbe mai di dire "La letteratura tratta la donna così e così" ben sapendo che la risposta sarebbe "Beh, c’è letteratura e letteratura!" mentre lo fa sempre con la pubblicità, considerandola come un monoblocco tutto uguale. Perché c’è cinema e cinema, c’è arte e arte e la pubblicità è una sola? Come chiunque può facilmente notare, la pubblicità non è tutta uguale.
La lingua. Questo è un luogo comune duro a morire. Ma l’evidenza non è discutibile. Alcuni ambiti hanno una propria lingua di riferimento. In tutto il mondo la lingua della musica colta è l’Italiano. La lingua della botanica è il Latino. La lingua della moda è quasi sempre il Francese. E quella dell’advertising è l’Inglese. Che poi ci sia qualcuno che se ne approfitta, ha solo a che fare con l’argomento di sopra, quello della qualità.
Provate a leggere senza ridere questo brano, tratto fedelmente dal comunicato stampa di una importante agenzia internazionale che lavora nel web:
"La campagna di comunicazione cross media, in linea con il concept ATL, anticipa le emozioni che si possono avere alla guida della nuova auto XXX per generare hot leads, innescare un dialogo con i prospect e trasformarli in richieste di Test Drive. Senza per questo compromettere il divertimento, grazie al game e ad un’azione di guerrilla con elettrostatici extra size, in cui i confini del reale, del virtuale e del ludico vengono a fondersi. Un obiettivo raggiunto, oltre che dall’alto livello di engagement della campagna, anche dall’alta sales conversion dei contatti generati. Questi ultimi sono stati inviati in tempo reale alla rete di Concessionari, che hanno curato il follow-up, offrendo il test drive e finalizzando l’acquisto".
I premi. La proliferazione dei premi dedicati alla creatività della comunicazione fa sorridere qualcuno. Eppure ogni mestiere creativo prevede dei premi. Letteratura, cinema, poesia, giornalismo etc. Evidentemente, per il tipo particolare di lavoratori di questi settori, si tratta di una benzina necessaria.
I libri. Quasi nessuno dei grandi pubblicitari della storia ha resistito alla tentazione di scrivere un libro. Fin qui tutto bene. Ma non ha neanche resistito alla pessima idea di declamare "si fa così", pur sapendo tutti benissimo che questo mestiere non ha regole e si evolve di continuo. Mi spiace dirlo, ma i libri dei grandi guru della pubblicità hanno una data di scadenza più breve del latte crudo. Sarebbe più onesto se avessero detto: "Noi... in quel particolare momento... in quel particolare contesto... per quel particolare brand... per quel particolare problema... abbiamo fatto così e ci è andata bene". Senza la presunzione di voler trasformare la loro esperienza in regola. D’altra parte l’analisi dei casi è la forma più avanzata di studio in quasi tutte le discipline professionali. La logica delle regole uccide la creatività. Così come la capacità di ribaltare le logiche è proprio
il terreno fertile delle grandi idee. E le persone capaci di destabilizzare le cose "come si sono sempre fatte" per indicarne di nuove, di migliori, spesso di più semplici sono quelli che chiamiamo comunemente geni.
Ma i creativi sono tutti roba buona? No. Ho cercato di dirlo prima. Non sono tutti uguali. Ripetuto che io penso che i creativi italiani siano assolutamente nell’elite mondiale, qui voglio solodire di chi diffido io. Se un creativo deve saper produrre i pezzi di comunicazione che attirino l’interesse sui valori della marca o del prodotto per cui lavora e non sulla comunicazione stessa, chi fa per principio il contrario non sta onorando il suo mestiere. La reazione dovrebbe essere: "Ho visto un fantastico prodotto", non "Ho visto una fantastica campagna". Ovvio che poi per fortuna capita che le due reazioni possano essere contemporanee, e la seconda conseguenza della prima, ma non viceversa.
Io uso il test della cartolina, per gli aspiranti. Quello di scrivere una cartolina, fra i media più elementari, per convincere un amico a raggiungerti in un posto di vacanza dove tu sei. Usando gli argomenti che tu sai lo potrebbero convincere. Diversi amici, diversi argomenti. Se i tuoi amici arrivano, sei un vero creativo. Così si mette subito il dito sul cuore del mestiere. Io diffido dei creativi velleitari. Più sogni che talenti. Generatori di guai epocali. In genere si sentono incompresi. Diffido degli innovatori ad ogni costo. Di chi continua a guardare ai nuovi territori perché non ha fatto fortuna nei vecchi.
Il tv commercial che sta spopolando nel mondo in questi giorni, per VW Passat, capace di fare 6,5 milioni di contatti su YouTube in 3 giorni (29 milioni dal 2 febbraio al 13), con un tappo vestito da Darth Vader non ha niente di rivoluzionario, solo intelligenza, sensibilità, scrittura e regia superbe. Diffido di chi deve ad ogni costo dimostrare qualcosa di sé attraverso la campagna che sta facendo. Adoro invece chi lavora libero dal condizionamento di dover dimostrare qualcosa, spesso perché l’ha già fatto, oppure perché è grande già da piccolo. Diffido di chi osserva con accanimento e segue le mode iniziate dagli altri. Di chi pensa che adottare un nuovo linguaggio sia sufficiente.
In tutti i Paesi, in tutti i tempi, il mondo si divide in due: chi apre la strada e chi la segue.