Editoriale

Editoriale/ Pirella c’è, è la pubblicità italiana che non c’è più

In memoria di Emanuele Pirella, a due anni dalla scomparsa Marco Ferri lo ricorda con un'intervista realizzata al creativo per Il Messaggero di Roma nel maggio 2004. Fuori dalle pastoie del postmodern, verso un’era di autenticità, con tanta voglia di raccontare “qualcosa di intelligente, di autentico, scritto bene, sulla propria epoca”: questa è la via per la rinascita della creatività pubblicità italiana. Con Emanuele nel cuore.
Marco Ferri, a due anni dalla scomparsa di Emanuele Pirella lo vuole ricordare con un'intervista realizzata al creativo per Il Messaggero di Roma nel maggio 2004.

Come mai, chiesi a Emanuele Pirella (in foto), oggi regna la quantità, soprattutto televisiva? E’ come, gli dissi, se il grande stomaco della tv commerciale digerisca tutto, a condizione che la pubblicità sia una pietanza tiepidina, riscaldata dal già visto. La risposta che mi diede Pirella è la misura dell’attualità del suo modo di pensare, del suo stile di lavoro, a distanza di due anni dalla sua improvvisa scomparsa.

“C’è stata in questi anni un’erosione delle competenze che erano appannaggio delle agenzie di pubblicità" sostenne Pirella. In effetti, il modello stava diventando tale per cui i grandi utenti di pubblicità cominciavano sempre più spesso ad avvalersi di consulenti di marketing esterni alle agenzie, stabilendo rapporti diretti con gli istituti di ricerca e d’indagine di mercato, con i centri media per la pianificazione e l’acquisto degli spazi pubblicitari. Il cosa, il perché e il dove comunicare cominciavano a non essere più compito dei pubblicitari. Ai quali rimaneva il come comunicare, ma sganciato dal contesto di una strategia di comunicazione, il come risultava un esercizio accademico, che arrancava tra l’intrattenimento e la mera televendita.

“Il risultato - mi disse Pirella - è che la qualità della comunicazione è un punto di riferimento pasticciato, non è più un paradigma condiviso. Oggi nei grandi network - continuò Pirella - si spendono più ore-uomo per i meeting fra responsabili finanziari e molto, molto meno per i responsabili creativi. Il “popolo dei creativi” è stato soppiantato da micro-moltitudini di ruoli e funzioni di gestione economica del budget pubblicitario”.

E il consumatore, gli chiesi? Il cittadino che consuma la comunicazione commerciale? Pirella sospirò, e mi disse che da tempo si sarebbe dovuto rompere lo schema che considera le persone alla basica stregua di target sociodemografici, per riconsiderare, invece, gli individui come portatori legittimi di esigenze trasversali, multi target, non per forza di cose sudditi di una concezione tolemaica del sistema televisivo commerciale. Insomma, per Pirella, la pubblicità deve essere tangibile, criticabile, condivisibile. E un prodotto andrebbe scelto per simpatia, per affetto, per amore, per stima della marca che lo commercializza.

Questa impostazione culturale e professionale è stata una cifra precisa, riconoscibile, direi una costante del segno che Emanuele Pirella ci ha lasciato due anni fa. E fa per niente impressione che le sue parole trovino piena cittadinanza nell’attualità: l’impoverimento culturale delle agenzie di pubblicità italiana ha toccato i minimi storici, essendo ormai completamente fuori combattimento dal dibattito, non dico culturale, ma neppure potendo essere vista come metro per considerazioni sulla società o il costume.

E allora, alla maniera del meccanismo del rovesciamento, tanto caro alla buona pubblicità, non è stato Pirella a mancare due anni fa alla pubblicità italiana, ma l’esatto contrario: in effetti, la pubblicità italiana non c’è più, mentre Emanuele Pirella è molto presente nella formazione culturale, nella mentalità aperta, nello stile di lavoro di chi considera il linguaggio creativo un modo stimolante per veicolare pensieri, produrre concetti, creare occasioni ghiotte di comunicazione, capaci di svicolare, surfare, sgambettare, arrampicarsi, volteggiare, scantonare in ogni media: scrivere cose che rimangano nella mente dei lettori, perché argute, intelligenti, intriganti, che esse siano lette su un autorevole quotidiano o su un sms; dette dallo speaker di uno spot o colte al volo su un twitter. Parole che rimangono perché piene di storie da raccontare, di storie che interessino, coinvolgano, sorprendano passanti, lettori, telespettatori, navigatori. Se questo era il modo di pensare e di lavorare di Pirella, questo è anche l’unico viatico per una rinascita della pubblicità italiana.

Ha scritto Edward Docx: “Se andiamo ancor più in profondità, ci accorgiamo della crescente rivalutazione dello scultore che sa scolpire e del romanziere che sa
scrivere. Jonathan Franzen ne è un esempio calzante: uno scrittore encomiato in tutto il mondo perché si sottrae alle evasioni di genere o alle strategie narrative postmoderne, cercando invece di dire qualcosa di intelligente, di autentico, scritto bene, sulla propria epoca.”

Proprio così. Fuori dalle pastoie del postmodern, verso un’era di autenticità, con tanta voglia di raccontare “qualcosa di intelligente, di autentico, scritto bene, sulla propria epoca”: questa è la via per la rinascita della creatività pubblicità italiana. Con Emanuele nel cuore.