Editoriale
Space Available in Cannes. Maths Men vs Mad Men: a Cannes il Nuovo supera l’Inaspettato
Nella sua rubrica Pasquale Diaferia riflette su dove sta andando la comunicazione, complice la rivoluzione dei big data, con un confronto tra lo scenario internazionale e quello italiano partendo dal Festival appena concluso. "La collaborazione tra Scienziati e Poeti sarà decisiva nel costruire narrazioni epiche, ed etiche, che leghino i consumatori alle marche. La rilevanza dei contenuti sarà sempre decisiva, ma se lo storico contenuto di Inaspettatezza, che oggi si chiama Innovazione, non sarà alto, per nessuna marca un consumatore vorrà spendere più denaro". E guardando al futuro della comunicazione in Italia commenta: " Bisognerà trovare una sintesi tra il nostro grande, invidiato passato, fatto di santi, eroi, artisti, scienziati, commercianti e navigatori, ed un futuro di tecnologia, conoscenza dei consumatori ed uso mirato delle tecniche più innovative di comunicazione digitale. In cui gli imprenditori siano più creativi di noi creativi. Ed in cui i creativi italiani sappiano riprendersi in mano il controllo del proprio mercato".
Come succede spesso negli anni a finale 5 , il festival ci ha mostrato dove andrà questo mestiere nel prossimo decennio.
Per questo è importante esserci stati ed avere visto i forti cambiamenti nel programma (il lancio della due giorni dei Lions Innovation) ma soprattutto i premi assegnati( e perfino quelli non assegnati): raccontano non solo il mantra del passato (cosa è una grande idea, e da dove viene), ma anche che il futuro della comunicazione starà nel mediare le tensioni che agitano questa comunità. E questo mestiere che muove miliardi di dollari nel mondo e modifica le scelte ed i comportamenti sociali dei paesi avanzati.
Le contrapposizioni da manipolare per far diventare sempre più vincenti e sociali le marche riguardano innanzitutto il rapporto tra creatività e big data, che ormai le piattaforme digitali raccolgono quotidianamente sui nostri consumi e le nostre abitudini. Da quello che digitiamo su Amazon o Google, da come usiamo il nostro cellulare o la nostra carta di credito, la manipolazione dei numeri che ognuno di noi genera diventano predizione dei macro comportamenti sociali. M a questa enorme possibilità predittiva sui consumi è niente se non viene filtrata e trasformata in innovazione dai creativi.
E che i Mad men possano convivere con i Maths men lo conferma David Droga, il creativo più influente di questo decennio: “I dati e la scienza stanno liberando la creatività proprio perché ci offrono delle solide fondamenta… Ci aiutano a porci sempre la giusta domanda.” La collaborazione tra Scienziati e Poeti sarà decisiva nel costruire narrazioni epiche, ed etiche, che leghino i consumatori alle marche. La rilevanza dei contenuti sarà sempre decisiva, ma se lo storico contenuto di Inaspettatezza, che oggi si chiama Innovazione, non sarà alto, per nessuna marca un consumatore vorrà spendere più denaro. Lo abbiamo visto non solo nei Grand Prix tecnici, ma perfino nei due della categoria Film: impeccabile, quasi classico per retorica e valori produttivi quello assegnato a Leica nella categoria tradizionale televisiva. Devastante e discutibile nella sua acidità, anche se meritatissimo, quello di Geico per i contenuti deliverati sul web. Che un pre roll possa vincere un Grand Prix è la dimostrazione che ormai le idee possono nascondersi anche nei formati più banali e fastidiosi, che le idee più innovative possano trovar casa in qualunque piega dei media, paid o earned.
La componente creativa, insomma, sarà sempre decisiva. Solo che nei prossimi anni evolverà verso la tecnologia applicata. Se pensate che finora la pubblicità era considerata arte applicata, è evidente che il futuro è fatto di grandi team allargati e collaborativi come nei laboratori della NASA o del CERN, non più di geni solitari chiusi nelle loro torri d’avorio a Madison Avenue. Comunità, non più agenzie, in cui gli uomini del codice dovranno sapere interagire con quelli delle storie, gli uomini del marketing dovranno obbligarsi a diventare inventori, non solo analisti. Perfino la differenza tra uomini del cliente e quelli dell’agenzia sfumerà superando il collo di bottiglia del vecchio account “guardiano della marca”: a ritirare il Grand Prix for Good, assegnato ad Ice Bucket Challenge, c’erano i creatori dell’operazione charity più famosa dell’anno, diffusa solo attraverso Facebook. Nessuno tra quegli uomini e donne aveva mai lavorato in agenzia né in azienda, visto che una onlus non può essere considerata una company tradizionale. Un bel segno, no?
Questi nuovi team di comunicazione dovranno superare la contrapposizione tra i premi creativi ed i risultati di mercato. Come qualcuno ha fatto notare, ormai le performance delle marche premiate qui a Cannes e le loro crescite di valore di borsa sono dirette e proporzionali. Straordinari gli esempi di P&G e Unilever, un tempo le cupe “Università del Marketing”, oggi aziende i cui brillanti CEO vengono di persona a ritirare i premi sul palco del Grand Audi con campagne che parlano di difesa dei diritti di genere e delle diversità, non solo di potere detergente o performance di prodotto. Guardarsi il canadese “#like a Girl” o lo spagnolo “Proudly Seeking Pleasure” per comprendere quello che sta succedendo.
Se poi ci focalizziamo sui premi creativi, per noi italiani questa edizione segna probabilmente la sana linea di confine tra un ottimismo di facciata e la dura realtà. Negli ultimi anni ci si era consolati con qualche performance singola (Coordown piuttosto che Heineken), che aveva sempre salvato in extremis il bilancio. Quest’anno, con la minor messe di premi della storia e nell’anno del record di lavori globali iscritti (oltre 40mila), si è compreso che ormai un singolo leone per una campagna vale pochissimo: conta solo metterne in fila almeno 5/7 premi trasversali a diverse categorie per poter cominciare a lasciare un segno nella storia di questo mestiere.
Eppure, in un anno disastroso con cui spero vorranno finalmente confrontarsi tutti i presidenti di associazioni cantori delle “magnifiche sorti e progressive “ della creatività nazionale, vi posso confessare che la più grande performance assoluta registrata in questi sette giorni è stata quella dell’italianissimo Luca De Meo: ha presentato un tedeschissimo Lunar Rover Audi ai Lions Innovation, ma ha riportato un chiaro riconoscimento della sua italianità. Vederlo raccontare della sua passione per le auto sviluppata a Torino nella miglior Fiat degli ultimi vent’anni (quando ancora aveva questo nome, peraltro) e della sua ricerca, dopo l’arrivo alla Audi, nel lasciare un suo personale segno nel marketing e comunicazione mondiale, è stato davvero esaltante. Soprattutto perché avvenuto in una sala piena di talenti internazionali, incantati dalle parole di un marketing manager che è anche un creativo visionario. Il vero rimpianto è che le nostre realtà industriali non siano riusciti a trattenerlo. Cosa avrebbero potuto offrirgli, peraltro?
Insomma, se il nostro non sarà il paese più bello del mondo, quasi sicuramente è quello con i creativi meno valorizzati del mondo, quelli che devono cercare altrove la loro realizzazione: per esempio è arrivata durante il festival la nomina a direttore creativo della DDB Berlino di una brava e giovane italiana. Ultimo dato certo, l’assoluta certezza che siamo il paese con i clienti meno curiosi, tecnologici e sfidanti del mondo.
Altrove la comunicazione è considerata un biglietto da visita per le marche, un asset da mettere a bilancio per le compagnie quotate in borsa come per le imprese familiari. Da noi invece ci si crogiola nella retorica dell’Expo del cibo, salvo scoprire che qui a Cannes i massimi protagonisti della Industry alimentare, la più iconica, cool e valoriale del mondo, ecco tutti questi leader ignorano completamente quello che a Milano si sta cercando di far passare come l’evento del secolo.
Vorrà invece pur dire qualcosa il fatto che il seminar che ha aperto i Lions Innovation sia stato quello di Dominos Pizza: uno schiaffo proprio alla nostra vocazione a “nutrire il pianeta”, da chi si è ormai intitolato il nostro prodotto più tradizionale. La Vice President Advertising, Karen Keiser, una manager rubizza subito ribattezzata “la signora Giovanni Rana d’America”, ha raccontato come negli ultimi dieci anni la tradizionale ed un po’ bolsa Domino’s Pizza, assieme all’agenzia creativa Crispin Porter (e bogusky per un bel periodo), sia riuscita a cambiare il proprio dna, diventando “una Tech company che vende servizi che servono a vendere pizza”. Così ha invertito un trend borsistico calante e ha decuplicato il valore delle azioni ed è stata riconosciuta con straordinari premi creativi qui a Cannes, culminati quest’anno nel Grand Prix nella categoria Titanium, il più prestigioso e tecnologico quello che segnala “le nuove porte che si aprono”: in questo caso l’uso degli emoticons per ordinare via mobile la pizza da ricevere a casa.
Come dire, vista la categoria merceologica, poteva vincerlo davvero Giovanni Rana, questo premio, trascinare la sua mole sul palco, esattamente come la rotondotta signora Keiser. Ma perché questo potesse avvenire, sarebbe servito che il Grande Giovanni, dopo aver lanciato la sua campagna negli anni’90 in tv, avesse scelto un' agenzia del nuovo millennio negli ultimi quindici anni, avesse collocato la sua azienda in borsa negli ultimi dieci, l’avesse accompagnata ad un percorso di rinnovamento anche tecnologico di un business tradizionale come hanno fatto tutte le grandi marche alimentari negli ultimi cinque. E soprattutto se l’avesse fatto attraverso la comunicazione digitale a forte contenuto sociale e relazionale.
Questa è la vera metafora delle contraddizioni italiane da mediare e valorizzare, come creativi, ma soprattutto come paese, per cercare di ritornare degni della civiltà economica del nuovo millennio. Bisognerà trovare una sintesi tra il nostro grande, invidiato passato, fatto di santi, eroi, artisti, scienziati, commercianti e navigatori, ed un futuro di tecnologia, conoscenza dei consumatori ed uso mirato delle tecniche più innovative di comunicazione digitale. In cui gli imprenditori siano più creativi di noi creativi. Ed in cui i creativi italiani sappiano riprendersi in mano il controllo del proprio mercato.
Le recenti tante nomine di Ad e presidenti che vengono dal reparto più brillante delle agenzie sono già dei segnali consolanti. Adesso serve che i clienti comincino a comprendere che perdere questo treno di innovazione rischia di tenerci ancorati ad una cultura broadcast televisiva che in tutto il mondo hanno superato. Sarà divertente sentire cosa dirà sul tema Sassoli De Bianchi mercoledì prossimo all’assemblea annuale dell’UPA. Magari non se parlerà neppure. O magari no.
Pasquale Diaferia twitter @pipiccola
Per questo è importante esserci stati ed avere visto i forti cambiamenti nel programma (il lancio della due giorni dei Lions Innovation) ma soprattutto i premi assegnati( e perfino quelli non assegnati): raccontano non solo il mantra del passato (cosa è una grande idea, e da dove viene), ma anche che il futuro della comunicazione starà nel mediare le tensioni che agitano questa comunità. E questo mestiere che muove miliardi di dollari nel mondo e modifica le scelte ed i comportamenti sociali dei paesi avanzati.
Le contrapposizioni da manipolare per far diventare sempre più vincenti e sociali le marche riguardano innanzitutto il rapporto tra creatività e big data, che ormai le piattaforme digitali raccolgono quotidianamente sui nostri consumi e le nostre abitudini. Da quello che digitiamo su Amazon o Google, da come usiamo il nostro cellulare o la nostra carta di credito, la manipolazione dei numeri che ognuno di noi genera diventano predizione dei macro comportamenti sociali. M a questa enorme possibilità predittiva sui consumi è niente se non viene filtrata e trasformata in innovazione dai creativi.
E che i Mad men possano convivere con i Maths men lo conferma David Droga, il creativo più influente di questo decennio: “I dati e la scienza stanno liberando la creatività proprio perché ci offrono delle solide fondamenta… Ci aiutano a porci sempre la giusta domanda.” La collaborazione tra Scienziati e Poeti sarà decisiva nel costruire narrazioni epiche, ed etiche, che leghino i consumatori alle marche. La rilevanza dei contenuti sarà sempre decisiva, ma se lo storico contenuto di Inaspettatezza, che oggi si chiama Innovazione, non sarà alto, per nessuna marca un consumatore vorrà spendere più denaro. Lo abbiamo visto non solo nei Grand Prix tecnici, ma perfino nei due della categoria Film: impeccabile, quasi classico per retorica e valori produttivi quello assegnato a Leica nella categoria tradizionale televisiva. Devastante e discutibile nella sua acidità, anche se meritatissimo, quello di Geico per i contenuti deliverati sul web. Che un pre roll possa vincere un Grand Prix è la dimostrazione che ormai le idee possono nascondersi anche nei formati più banali e fastidiosi, che le idee più innovative possano trovar casa in qualunque piega dei media, paid o earned.
La componente creativa, insomma, sarà sempre decisiva. Solo che nei prossimi anni evolverà verso la tecnologia applicata. Se pensate che finora la pubblicità era considerata arte applicata, è evidente che il futuro è fatto di grandi team allargati e collaborativi come nei laboratori della NASA o del CERN, non più di geni solitari chiusi nelle loro torri d’avorio a Madison Avenue. Comunità, non più agenzie, in cui gli uomini del codice dovranno sapere interagire con quelli delle storie, gli uomini del marketing dovranno obbligarsi a diventare inventori, non solo analisti. Perfino la differenza tra uomini del cliente e quelli dell’agenzia sfumerà superando il collo di bottiglia del vecchio account “guardiano della marca”: a ritirare il Grand Prix for Good, assegnato ad Ice Bucket Challenge, c’erano i creatori dell’operazione charity più famosa dell’anno, diffusa solo attraverso Facebook. Nessuno tra quegli uomini e donne aveva mai lavorato in agenzia né in azienda, visto che una onlus non può essere considerata una company tradizionale. Un bel segno, no?
Questi nuovi team di comunicazione dovranno superare la contrapposizione tra i premi creativi ed i risultati di mercato. Come qualcuno ha fatto notare, ormai le performance delle marche premiate qui a Cannes e le loro crescite di valore di borsa sono dirette e proporzionali. Straordinari gli esempi di P&G e Unilever, un tempo le cupe “Università del Marketing”, oggi aziende i cui brillanti CEO vengono di persona a ritirare i premi sul palco del Grand Audi con campagne che parlano di difesa dei diritti di genere e delle diversità, non solo di potere detergente o performance di prodotto. Guardarsi il canadese “#like a Girl” o lo spagnolo “Proudly Seeking Pleasure” per comprendere quello che sta succedendo.
Se poi ci focalizziamo sui premi creativi, per noi italiani questa edizione segna probabilmente la sana linea di confine tra un ottimismo di facciata e la dura realtà. Negli ultimi anni ci si era consolati con qualche performance singola (Coordown piuttosto che Heineken), che aveva sempre salvato in extremis il bilancio. Quest’anno, con la minor messe di premi della storia e nell’anno del record di lavori globali iscritti (oltre 40mila), si è compreso che ormai un singolo leone per una campagna vale pochissimo: conta solo metterne in fila almeno 5/7 premi trasversali a diverse categorie per poter cominciare a lasciare un segno nella storia di questo mestiere.
Eppure, in un anno disastroso con cui spero vorranno finalmente confrontarsi tutti i presidenti di associazioni cantori delle “magnifiche sorti e progressive “ della creatività nazionale, vi posso confessare che la più grande performance assoluta registrata in questi sette giorni è stata quella dell’italianissimo Luca De Meo: ha presentato un tedeschissimo Lunar Rover Audi ai Lions Innovation, ma ha riportato un chiaro riconoscimento della sua italianità. Vederlo raccontare della sua passione per le auto sviluppata a Torino nella miglior Fiat degli ultimi vent’anni (quando ancora aveva questo nome, peraltro) e della sua ricerca, dopo l’arrivo alla Audi, nel lasciare un suo personale segno nel marketing e comunicazione mondiale, è stato davvero esaltante. Soprattutto perché avvenuto in una sala piena di talenti internazionali, incantati dalle parole di un marketing manager che è anche un creativo visionario. Il vero rimpianto è che le nostre realtà industriali non siano riusciti a trattenerlo. Cosa avrebbero potuto offrirgli, peraltro?
Insomma, se il nostro non sarà il paese più bello del mondo, quasi sicuramente è quello con i creativi meno valorizzati del mondo, quelli che devono cercare altrove la loro realizzazione: per esempio è arrivata durante il festival la nomina a direttore creativo della DDB Berlino di una brava e giovane italiana. Ultimo dato certo, l’assoluta certezza che siamo il paese con i clienti meno curiosi, tecnologici e sfidanti del mondo.
Altrove la comunicazione è considerata un biglietto da visita per le marche, un asset da mettere a bilancio per le compagnie quotate in borsa come per le imprese familiari. Da noi invece ci si crogiola nella retorica dell’Expo del cibo, salvo scoprire che qui a Cannes i massimi protagonisti della Industry alimentare, la più iconica, cool e valoriale del mondo, ecco tutti questi leader ignorano completamente quello che a Milano si sta cercando di far passare come l’evento del secolo.
Vorrà invece pur dire qualcosa il fatto che il seminar che ha aperto i Lions Innovation sia stato quello di Dominos Pizza: uno schiaffo proprio alla nostra vocazione a “nutrire il pianeta”, da chi si è ormai intitolato il nostro prodotto più tradizionale. La Vice President Advertising, Karen Keiser, una manager rubizza subito ribattezzata “la signora Giovanni Rana d’America”, ha raccontato come negli ultimi dieci anni la tradizionale ed un po’ bolsa Domino’s Pizza, assieme all’agenzia creativa Crispin Porter (e bogusky per un bel periodo), sia riuscita a cambiare il proprio dna, diventando “una Tech company che vende servizi che servono a vendere pizza”. Così ha invertito un trend borsistico calante e ha decuplicato il valore delle azioni ed è stata riconosciuta con straordinari premi creativi qui a Cannes, culminati quest’anno nel Grand Prix nella categoria Titanium, il più prestigioso e tecnologico quello che segnala “le nuove porte che si aprono”: in questo caso l’uso degli emoticons per ordinare via mobile la pizza da ricevere a casa.
Come dire, vista la categoria merceologica, poteva vincerlo davvero Giovanni Rana, questo premio, trascinare la sua mole sul palco, esattamente come la rotondotta signora Keiser. Ma perché questo potesse avvenire, sarebbe servito che il Grande Giovanni, dopo aver lanciato la sua campagna negli anni’90 in tv, avesse scelto un' agenzia del nuovo millennio negli ultimi quindici anni, avesse collocato la sua azienda in borsa negli ultimi dieci, l’avesse accompagnata ad un percorso di rinnovamento anche tecnologico di un business tradizionale come hanno fatto tutte le grandi marche alimentari negli ultimi cinque. E soprattutto se l’avesse fatto attraverso la comunicazione digitale a forte contenuto sociale e relazionale.
Questa è la vera metafora delle contraddizioni italiane da mediare e valorizzare, come creativi, ma soprattutto come paese, per cercare di ritornare degni della civiltà economica del nuovo millennio. Bisognerà trovare una sintesi tra il nostro grande, invidiato passato, fatto di santi, eroi, artisti, scienziati, commercianti e navigatori, ed un futuro di tecnologia, conoscenza dei consumatori ed uso mirato delle tecniche più innovative di comunicazione digitale. In cui gli imprenditori siano più creativi di noi creativi. Ed in cui i creativi italiani sappiano riprendersi in mano il controllo del proprio mercato.
Le recenti tante nomine di Ad e presidenti che vengono dal reparto più brillante delle agenzie sono già dei segnali consolanti. Adesso serve che i clienti comincino a comprendere che perdere questo treno di innovazione rischia di tenerci ancorati ad una cultura broadcast televisiva che in tutto il mondo hanno superato. Sarà divertente sentire cosa dirà sul tema Sassoli De Bianchi mercoledì prossimo all’assemblea annuale dell’UPA. Magari non se parlerà neppure. O magari no.
Pasquale Diaferia twitter @pipiccola