Inchieste
Italia. Ironia, questa sconosciuta
Secondo la docente Iulm Maria Angela Polesana, è la mancanza di questo elemento oggi nella pubblicità italiana a lasciare indietro il nostro Paese rispetto ad altri, dove invece dominano cinismo, originalità e voglia di sperimentare strade nuove. Questi i linguaggi preferiti all'estero per rispondere alla crescente richiesta del consumatore di una relazione con il brand, con cui condividere valori profondi. Pubblichiamo l'ìintervista tratta dall'inchiesta su creatività italiana vs creatività internazionale tratta dall'ultimo numero di NC - Nuova Comunicazione.
Il nostro viaggio nella creatività italiana e internazionale non può prescindere da una breve analisi del medagliere del Festival di Cannes dell’anno passato 2014. Già da un primo sguardo ci si rende immediatamente conto di quali siano i Paesi decretati quali più creativi e degni di essere premiati secondo le prestigiose giurie della kermesse, e qual è il livello della nostra Italia.
Chi sale, chi scende
Guardando le prime dieci posizioni del medagliere di Cannes 2014, si nota innanzitutto la conferma rispetto all’anno precedente nei primi tre posti di Usa, Brasile e Uk. Quello che però colpisce di più è l’ascesa dell’Argentina dal 15° posto del 2013 al 6° del 2014.
Ma anche della Francia, che guadagna due posizioni passando in quarta, e della Spagna, che dal 17° posto arriva al 9°. E l’Italia? Il nostro Paese in realtà fra il 2013 e il 2014 ha guadagnato un posto nel medagliere, passando dal 19° al 18°, e ha conquistato sì meno leoni - 15 contro i 19 del 2013 -, ma più preziosi: 3 ori, 4 argenti e 8
bronzi (nel 2013 erano 1 oro, 3 argenti e 15 bronzi), in cinque differenti categorie (Promo & Activation, Pr, Direct, Cyber e Film). Interessante, però, è andare a vedere nel dettaglio quelle in cui l’Italia non c’è. Nel 2014, infatti, il nostro Paese non è pervenuto in diverse categorie, non solo fra quelle tradizionali - Radio, Outdoor, Media, Press-, ma anche e soprattutto fra quelle più innovative, come Design, Film Craft, Titanium & Integrated, Creative Effectiveness. E ancora: Branded Content, Product Design, Innovation e Mobile. Insomma, l’Italia fatica sia nei canali più innovativi, in cui quello che premia è il guizzo di ingegno, intorno al quale viene costruita una strategia di comunicazione coerente, ma anche su alcuni fronti classici della comunicazione, in cui ormai non convince più.
Parole, parole, parole….
Ma allora qual è il problema? Perché l’Italia non riesce a ‘fare il balzo’ in comunicazione, come altri Paesi? Lo abbiamo chiesto a un’esperta di comunicazione, Maria Angela la Polesana, docente di ‘Strategie e politica delle aziende di marca’ presso il corso di Laurea Magistrale in Marketing, Consumi e Comunicazione dell’Università Iulm, che proprio nel suo ultimo libro, intitolato ‘Pubblicità e valori’, in uscita a settembre per Franco Angeli, affronta anche questi temi, in relazione in particolare alla pubblicità televisiva. In un’ampia analisi dell’evoluzione della comunicazione, che in questi ultimi anni si è modificata di pari passo con un mutato scenario valoriale del consumatore, Polesana evidenzia come l’Italia sia ancora indietro rispetto ad altri Paesi nella sperimentazione di linguaggi nuovi e originali, preferendo invece strade già conosciute e percorse fin troppe volte.
“La pubblicità italiana pare spesso dimenticare che, come diceva David Ogilvy, ‘Il consumatore non è uno stupido. Il consumatore è tua moglie’ - spiega Polesana -. Vi è un pregiudizio duro a morire secondo cui è meglio non inoltrarsi in territori nuovi, ma usare i soliti rassicuranti linguaggi, per evitare che il consumatore non sia in grado di decodificare il messaggio. L’umorismo, nella fattispecie dell’ironia, l’imprevedibilità, la sintesi non sono ancora presenti, o solo raramente, nella nostra pubblicità, ancora troppo ‘verbosa’”. Siamo ancora troppo influenzati, secondo Polesana, da Carosello e dal suo linguaggio parlato, mentre ancora non riusciamo a utilizzare in modo efficace, come si fa in molti altri Paesi, le immagini, i sottintesi e l’ironia. Se quindi nella pubblicità italiana il prodotto è raccontato fin dall’inizio, come se il consumatore avesse bisogno di spiegazioni chiare e dettagliate sull’oggetto del messaggio, all’estero ironia, creatività e anche cinismo sono i linguaggi predominanti. Basti pensare a una campagna come ‘Sorry I spent it for myself’, creata dall’agenzia Adam&Eve DDB London per i grandi magazzini britannici Harvey Nichols, che ha trionfato all’ultimo Festival di Cannes (GP nelle categorieFilm, Promo & Activation e Titanium).
Ma si ricordi anche il gorilla di Cadbury, o la bellezza autentica di Dove, che hanno saputo dar vita a messaggi di contenuto attraverso narrazioni originali.
“La narrazione non ha paura di giocare col prodotto per coinvolgere il consumatore scrive Polesana nel suo libro -. Nel nostro Paese, invece, pare permanere il timore di fargli perdere il valore che ha, agli occhi del consumatore, nel momento in cui lo si proietti all’interno di una narrazione ironica o fortemente emozionale o straniante e quindi pericolosa, perché tale da poter far perdere di vista il prodotto stesso e i suoi attributi. Dimenticando che invece è proprio questo che garantisce quell’effetto alone di carattere simbolico al prodotto stesso. Forse bisognerebbe ricordare che le aziende vendono prodotti, ma i consumatori acquistano segni, simboli: acquistano, in una parola, la marca”.
E la marca, oggi più che mai, deve farsi portatrice di valori condivisibili dal consumatore, che in essa ricerca coerenza, credibilità, trasparenza e sostenibilità. Soprattutto, però, con il brand, l’utente vuole oggi una relazione, in cui ricevere emozioni e messaggi che fanno riferimento al suo mondo interiore. Ecco quindi che lo storytelling diventa la strategia più efficace per parlare al proprio pubblico, alla ricerca continua di valori condivisi. “Come diceva il pubblicitario Marco Lombardi, ‘la nuova brand story dovrebbe essere quella di un fine disinteressato, il concetto di un bene più grande, in cui l’agenda individuale e quella collettiva diventano una sola - continua Polesana -. Oggi la pubblicità, attraverso il racconto, parla alla nostra fantasia. Mette in scena una storia che condividiamo e che aspira diventare nostra. L’emozione, la relazione, il benessere (che subentra al ‘benavere’), la compatibilità sociale e ambientale, la gratuità del dono, la felicità sono alcuni dei grandi temi che percorrono, prendendo le mosse dal web, la società”.
Numerosi sono gli esempi internazionali di successo di una comunicazione che parla sempre più di valori: dallo spot tailandese ‘Unsung Hero’, prodotto dalla compagnia Thai Life Insurance e diffuso su YouTube, a quello di Coca-Cola ‘Share a real moment with Coca-Cola’, che pubblicizza il cosiddetto ‘Social Media Guard’, un ironico ‘salvavita’ rispetto alle distrazioni dal mondo reale che i media digitali ci offrono continuamente. E in Italia? Anche se non sono molti, ci sono senza dubbio alcuni tentativi di sintonizzazione con la sfera valoriale come, ad esempio, le ultime case history di Illy: una di queste è il documentario sulle donne di Asomobi (Asociacion de Mujeres Organizadas de Biolley), l’associazione delle donne produttrici di caffè, che vivono sulla Cordigliera di Talamanca in Costa Rica e che hanno costruito il loro primo macinacaffè dando così il via a un modello di coltivazione del caffè sostenibile e di qualità. Sempre di Illy, vi sono i quattro episodi che vedono protagonisti grandi chef, quali Bottura e Bras, Adria e Cracco, Oldani e Canavacciuolo. O, ancora, gli episodi ‘Artisti del gusto’ dedicati ai baristi che vogliono trasformare la professione in arte. “Tutti questi sono esempi che dimostrano la capacità di declinare lo storytelling (arte, gusto, tradizione, cultura, ndr) attraverso una molteplicità di touchpoint col consumatore - spiega Polesana -. È evidente l’enagaging che veicola una simile strategia in cui la comunicazione della marca viene sentita meno orientata alla vendita e più alla condivisione e al dono”.
Ilaria Myr
Chi sale, chi scende
Guardando le prime dieci posizioni del medagliere di Cannes 2014, si nota innanzitutto la conferma rispetto all’anno precedente nei primi tre posti di Usa, Brasile e Uk. Quello che però colpisce di più è l’ascesa dell’Argentina dal 15° posto del 2013 al 6° del 2014.
Ma anche della Francia, che guadagna due posizioni passando in quarta, e della Spagna, che dal 17° posto arriva al 9°. E l’Italia? Il nostro Paese in realtà fra il 2013 e il 2014 ha guadagnato un posto nel medagliere, passando dal 19° al 18°, e ha conquistato sì meno leoni - 15 contro i 19 del 2013 -, ma più preziosi: 3 ori, 4 argenti e 8
bronzi (nel 2013 erano 1 oro, 3 argenti e 15 bronzi), in cinque differenti categorie (Promo & Activation, Pr, Direct, Cyber e Film). Interessante, però, è andare a vedere nel dettaglio quelle in cui l’Italia non c’è. Nel 2014, infatti, il nostro Paese non è pervenuto in diverse categorie, non solo fra quelle tradizionali - Radio, Outdoor, Media, Press-, ma anche e soprattutto fra quelle più innovative, come Design, Film Craft, Titanium & Integrated, Creative Effectiveness. E ancora: Branded Content, Product Design, Innovation e Mobile. Insomma, l’Italia fatica sia nei canali più innovativi, in cui quello che premia è il guizzo di ingegno, intorno al quale viene costruita una strategia di comunicazione coerente, ma anche su alcuni fronti classici della comunicazione, in cui ormai non convince più.
Parole, parole, parole….
Ma allora qual è il problema? Perché l’Italia non riesce a ‘fare il balzo’ in comunicazione, come altri Paesi? Lo abbiamo chiesto a un’esperta di comunicazione, Maria Angela la Polesana, docente di ‘Strategie e politica delle aziende di marca’ presso il corso di Laurea Magistrale in Marketing, Consumi e Comunicazione dell’Università Iulm, che proprio nel suo ultimo libro, intitolato ‘Pubblicità e valori’, in uscita a settembre per Franco Angeli, affronta anche questi temi, in relazione in particolare alla pubblicità televisiva. In un’ampia analisi dell’evoluzione della comunicazione, che in questi ultimi anni si è modificata di pari passo con un mutato scenario valoriale del consumatore, Polesana evidenzia come l’Italia sia ancora indietro rispetto ad altri Paesi nella sperimentazione di linguaggi nuovi e originali, preferendo invece strade già conosciute e percorse fin troppe volte.
“La pubblicità italiana pare spesso dimenticare che, come diceva David Ogilvy, ‘Il consumatore non è uno stupido. Il consumatore è tua moglie’ - spiega Polesana -. Vi è un pregiudizio duro a morire secondo cui è meglio non inoltrarsi in territori nuovi, ma usare i soliti rassicuranti linguaggi, per evitare che il consumatore non sia in grado di decodificare il messaggio. L’umorismo, nella fattispecie dell’ironia, l’imprevedibilità, la sintesi non sono ancora presenti, o solo raramente, nella nostra pubblicità, ancora troppo ‘verbosa’”. Siamo ancora troppo influenzati, secondo Polesana, da Carosello e dal suo linguaggio parlato, mentre ancora non riusciamo a utilizzare in modo efficace, come si fa in molti altri Paesi, le immagini, i sottintesi e l’ironia. Se quindi nella pubblicità italiana il prodotto è raccontato fin dall’inizio, come se il consumatore avesse bisogno di spiegazioni chiare e dettagliate sull’oggetto del messaggio, all’estero ironia, creatività e anche cinismo sono i linguaggi predominanti. Basti pensare a una campagna come ‘Sorry I spent it for myself’, creata dall’agenzia Adam&Eve DDB London per i grandi magazzini britannici Harvey Nichols, che ha trionfato all’ultimo Festival di Cannes (GP nelle categorieFilm, Promo & Activation e Titanium).
Ma si ricordi anche il gorilla di Cadbury, o la bellezza autentica di Dove, che hanno saputo dar vita a messaggi di contenuto attraverso narrazioni originali.
“La narrazione non ha paura di giocare col prodotto per coinvolgere il consumatore scrive Polesana nel suo libro -. Nel nostro Paese, invece, pare permanere il timore di fargli perdere il valore che ha, agli occhi del consumatore, nel momento in cui lo si proietti all’interno di una narrazione ironica o fortemente emozionale o straniante e quindi pericolosa, perché tale da poter far perdere di vista il prodotto stesso e i suoi attributi. Dimenticando che invece è proprio questo che garantisce quell’effetto alone di carattere simbolico al prodotto stesso. Forse bisognerebbe ricordare che le aziende vendono prodotti, ma i consumatori acquistano segni, simboli: acquistano, in una parola, la marca”.
E la marca, oggi più che mai, deve farsi portatrice di valori condivisibili dal consumatore, che in essa ricerca coerenza, credibilità, trasparenza e sostenibilità. Soprattutto, però, con il brand, l’utente vuole oggi una relazione, in cui ricevere emozioni e messaggi che fanno riferimento al suo mondo interiore. Ecco quindi che lo storytelling diventa la strategia più efficace per parlare al proprio pubblico, alla ricerca continua di valori condivisi. “Come diceva il pubblicitario Marco Lombardi, ‘la nuova brand story dovrebbe essere quella di un fine disinteressato, il concetto di un bene più grande, in cui l’agenda individuale e quella collettiva diventano una sola - continua Polesana -. Oggi la pubblicità, attraverso il racconto, parla alla nostra fantasia. Mette in scena una storia che condividiamo e che aspira diventare nostra. L’emozione, la relazione, il benessere (che subentra al ‘benavere’), la compatibilità sociale e ambientale, la gratuità del dono, la felicità sono alcuni dei grandi temi che percorrono, prendendo le mosse dal web, la società”.
Numerosi sono gli esempi internazionali di successo di una comunicazione che parla sempre più di valori: dallo spot tailandese ‘Unsung Hero’, prodotto dalla compagnia Thai Life Insurance e diffuso su YouTube, a quello di Coca-Cola ‘Share a real moment with Coca-Cola’, che pubblicizza il cosiddetto ‘Social Media Guard’, un ironico ‘salvavita’ rispetto alle distrazioni dal mondo reale che i media digitali ci offrono continuamente. E in Italia? Anche se non sono molti, ci sono senza dubbio alcuni tentativi di sintonizzazione con la sfera valoriale come, ad esempio, le ultime case history di Illy: una di queste è il documentario sulle donne di Asomobi (Asociacion de Mujeres Organizadas de Biolley), l’associazione delle donne produttrici di caffè, che vivono sulla Cordigliera di Talamanca in Costa Rica e che hanno costruito il loro primo macinacaffè dando così il via a un modello di coltivazione del caffè sostenibile e di qualità. Sempre di Illy, vi sono i quattro episodi che vedono protagonisti grandi chef, quali Bottura e Bras, Adria e Cracco, Oldani e Canavacciuolo. O, ancora, gli episodi ‘Artisti del gusto’ dedicati ai baristi che vogliono trasformare la professione in arte. “Tutti questi sono esempi che dimostrano la capacità di declinare lo storytelling (arte, gusto, tradizione, cultura, ndr) attraverso una molteplicità di touchpoint col consumatore - spiega Polesana -. È evidente l’enagaging che veicola una simile strategia in cui la comunicazione della marca viene sentita meno orientata alla vendita e più alla condivisione e al dono”.
Ilaria Myr