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NC. PHD: l'età dell'innocenza dei Big Data

I dati stanno diventando la nuova moneta di scambio fra brand e consumatori: questo e molto altro emerge da una recente ricerca svolta da PHD Italia sull'atteggiamento degli italiani nei confronti dei propri dati personali. Un approfondimento necessario per entrare, in modo consapevole, sul terreno dell'intelligenza artificiale, che in Italia è ancora in una fase iniziale, ma che diventerà dominante nel prossimo futuro. Pubblichiamo l'intervista ad Alessandro Lacovara, managing director PHD Italia, pubblicata, all'interno dell'inchiesta sull'Intelligenza Artificiale, sul numero di settembre/ottobre di NC -Nuova Comunicazione.

“Oggi tutti parlano, spesso abusandone, di Intelligenza Artificiale e dei suoi effetti dirompenti ma, nonostante il fermento, siamo ancora nell’infanzia di questo mondo, in una fase iniziale rispetto all’utilizzo realmente evoluto di questi strumenti. Il fatto è che, a monte, non si ha ancora del tutto a disposizione il ‘giusto carburante di dati’ - ricchi, variegati, consensati e affidabili - necessari per far partire in modo corretto e consapevole l’AI”.

È da un’analisi attenta e profonda dei big data che bisogna iniziare per approcciare questo argomento secondo Alessandro Lacovara (nella foto), managing director di PHD Italia - l’agenzia media, di marketing e comunicazione del Gruppo Omnicom - che, proprio partendo da questa convinzione, ha svolto una ricerca dal titolo ‘L’insostenibile leggerezza del dato’.

L’indagine, svolta su un campione rappresentativo di 2.000 individui fotografa gli italiani e il loro atteggiamento nei confronti dei dati personali, della loro protezione e del loro valore: che rapporto hanno gli italiani con i propri dati personali? E quanto sono aggiornati sul loro utilizzo in chiave commerciale?

I dati oggi utilizzati nel mondo del marketing e della comunicazione sono ancora una bassissima percentuale di tutti quelli disponibili e potenzialmente utilizzabili, se ne accumulano così giacimenti non sfruttati, alcuni dei quali anche preziosi”, spiega il manager. Questo accade perché alcuni di questi ‘serbatoi’ di informazioni non sono ancora consensati o accessibili. L’ultima pubblicazione di PHD ‘Merge: il divario finale tra uomo e tecnologia’ indaga questo viaggio di progressi nel campo dell’intelligenza artificiale e la sfida per i brand è proprio nella trasformazione dei dati in insight utili per piani di business sempre più performanti. Chiunque voglia oggi essere competitivo non può non occuparsene, ma occorre essere in grado di leggerli e interpretarli, processarli velocemente, ponendo le giuste domande.

“Il mondo del media è in questo senso un’industry avanzata - continua Lacovara -: il dato assume un’importanza sempre più centrale ed è in quest’ottica che PHD si avvale della DMP proprietaria di OMG, Annalect, che dispone di numerose partnership con i principali premium publisher e data provider italiani. Per questo motivo, nelle campagne programmatic, possiamo profilare utenti con comportamenti estremamente specifici che vanno a beneficio delle performance e dell’analisi della customer journey dell’utente. Grazie al machine learning e agli algoritmi delle DSP unite alla nostra expertise, i KPI ne risultano migliorati su tutti i livelli, dalle campagne di awareness a quelle con obiettivi di lead, vendita e ROI.

Altro motore di PHD è Source, la piattaforma collaborativa globale usata dal network per ideare, progettare e implementare le strategie di comunicazione per i clienti attraverso una competizione tra colleghi di tutto il mondo: essa integra in un’unica soluzione l’ottimizzazione dei canali in base a reach e ROI, allocando efficacemente i budget e creando le basi per lo sviluppo di modelli predittivi”.

 

I dati, nuova moneta di scambio.

Tornando all’indagine, il quadro che ne emerge non è privo di contraddizioni: gli intervistati si dimostrano preoccupati per la propria privacy online ma non così attenti a proteggerla, consapevoli del valore commerciale dei dati personali, ma poco informati sul loro effettivo utilizzo. Sei italiani su dieci (62%), si dicono preoccupati per la privacy online e quasi sette su dieci (67%) dichiarano che la preoccupazione, rispetto al passato, è sensibilmente aumentata. Allo stesso tempo, però, solo il 50% si definisce ‘attento’ alla protezione della propria privacy online, mentre il 38%, quando valuta il consenso al trattamento dei dati personali, dichiara di cliccare su ‘consenti’ leggendo velocemente o non leggendo affatto.

Allarme o fiducia, però, così come controllo o disinvoltura nei confronti dei dati personali viaggiano a velocità e con sfumature diverse a seconda del ‘data mindset’ degli intervistati che, rivela la ricerca, possono essere raggruppati in quattro cluster: Protagonisti (19%), Antagonisti (27%), Comparse (28%) e Spettatori (26%). I Protagonisti hanno maturato un alto livello di consapevolezza sul tema; gli Antagonisti sono molto preoccupati per la gestione dei propri dati personali, ma incapaci di prendere in mano la situazione; le Comparse si lasciano trascinare dal progresso senza particolari attenzioni o strategie; gli Spettatori desiderano un maggior controllo, ma lo demandano completamente ad altri.

Preoccupazioni a parte, sette italiani su dieci (71%) si dichiarano consapevoli del valore commerciale dei propri dati personali, il 47% (58% negli over 45) concorda nella definizione di “moneta di scambio per contenuti gratuiti sul web” e indica nel risparmio la motivazione numero uno. Il 65% degli italiani si dice favorevole al consenso per l’accesso ai propri dati personali in cambio di“soluzioni che permettano di risparmiare”.

E alla domanda “In che modo vorresti essere ricompensato per la condivisione delle tue abitudini?”la maggioranza degli intervistati (il 62% del campione) sceglie come risposta “con del denaro” e quando si tratta di dare un ‘prezzo’ a queste informazioni a vincere nella quotazione è l’intimità.

Ma che cosa si aspettano gli italiani? Uno su due (52%) ritiene le istituzioni responsabili della protezione dei dati personali e della privacy e il 64% vorrebbe avere un maggiore controllo sulle informazioni che fornisce alle aziende, anche perché solo uno su dieci (11%) si dice convinto della trasparenza delle aziende rispetto alle politiche di gestione dei dati personali dei clienti (e dopo lo scandalo datagate la percentuale di chi non si dice convinto passa dal 42 al 52%).

Ben tre italiani su dieci (31%), infine, prevedono che le loro scelte di acquisto potrebbero essere influenzate dal livello di trasparenza sul trattamento dei dati offerto dall’azienda che propone il prodotto o servizio che intendono acquistare.

 

Un nuovo scenario ‘algoritmico’

In questo contesto, cambia profondamente anche il ruolo dei partner di comunicazione, e in particolare dei centri media, il cui lavoro già oggi utilizza molto gli algoritmi e nel prossimo futuro è destinato a diventare dominante, con l’accesso a quantità molto maggiori di dati.“In una seconda fase di questa rivoluzione saranno gli algoritmi a prendere decisioni per i brand sulla base dei modelli predittivi e, entro il 2050, una grossa parte del marketing sarà governata esclusivamente da algoritmi e programmi senza bisogno di alcun contributo umano’’ - dichiara Lacovara - “e molti dei ruoli oggi esistenti non serviranno più, mentre ne nasceranno di nuovi, figure specializzate a garantire un approccio data driven. Dal canto loro, le aziende si divideranno fra quelle a basso interesse, della vita quotidiana, e quelli ad alto interesse, in grado invece di creare una vera relazione profonda con i consumatori.

Le prime necessiteranno di basi tecnologiche molto solide, per sviluppare campagne di comunicazione totalmente automatizzate, mentre le seconde avranno bisogno di creare esperienze immersive e uniche per emozionare il pubblico. I brand dovranno concentrarsi su come ottenere la fiducia dei consumatori in merito alla gestione dei dati personali, da cui dipenderà il fallimento o il successo delle aziende del futuro. La partita si giocherà sul terreno dell’etica, parola che ritroviamo nel termine ‘monetica’: a significare che il business senza valori è destinato a fallire”.