Inchieste

Chi non risica non comunica

Pubblichiamo la prima parte dell’inchiesta ‘L’innovazione nella comunicazione’, uscita sulla rivista NC. Le aziende sono concordi: l’innovazione deve passare per le nuove frontiere tecnologiche, per i media alternativi, da inserire in media mix sempre più articolati, insieme ai mezzi che hanno fatto la storia della comunicazione e che ancora, per esempio la tv, vincono su tutti. Ma siamo solo a metà dell’opera. La ricetta vincente consiste nell’osare di più, con creatività e curiosità, magari ispirandosi al motto di socratica memoria "so di non sapere".
Essere innovativi oggi significa innanzitutto avere il coraggio di osare, di intraprendere strade mai battute prima. Significa essere capaci di offrire al consumatore esperienze credibili, coinvolgenti, personalizzate, ad alto valore aggiunto, e fruibili sempre, attraverso qualsiasi canale. Significa riuscire a vedere le stesse cose con occhi nuovi, anticipare i trend, immaginando il ‘futuro’, perché, anche in comunicazione, parafrasando il fondatore di Apple, Steve Jobs (in foto a sinistra): “Se fai qualcosa che scopri essere buono, dovresti provare a fare qualcos’altro di meraviglioso, senza soffermarti troppo a lungo. Immagina sempre cosa c’è dopo”.

Il giro di microfono della rivista NC tra alcune aziende dei diversi comparti dell’industria ha portato a una conclusione che ancora riprende il succitato Jobs: ‘L’innovazione è ciò che distingue i leader dai seguaci’. Sì, perché oggi più che mai, in un post crisi che ha coinvolto l’intera economia e che ancora fa sentire il suo strascico, a fare la differenza sono coloro che riescono a distinguersi, a crescere insieme al mercato, modificando filosofie e approcci per essere realmente ‘up to date’, competitivi. All’insegna di un ‘continuos improvement’, di quel ‘Only the best is Good Enough’, già motto del fondatore della società Lego Ole Kirk Christiansen.

Per le aziende, l’innovazione oggi parte anche dalle nuove frontiere tecnologiche, conditio sine qua non, insieme a idee e creatività, per il raggiungimento del successo, anche in comunicazione. Saper combinare in modo unico quello che già esiste, sperimentare nuovi mezzi di comunicazione, osservare e studiare il target che si intende raggiungere risultano step fondamentali. Ad accelerare la naturale evoluzione del media mix é sopraggiunta la crisi economica globale, che ha costretto le imprese rivalutare gli investimenti pubblicitari e i media sui quali puntare. Le aziende hanno dovuto ridimensionare i propri budget prediligendo strumenti mediatici efficienti, misurabili e possibilmente con un impatto diretto sulle vendite. Tra questi spicca internet, per la sua prerogativa di contenimento dei costi pubblicitari e l’alto livello di misurabilità della performance.

Internet, corre ma non troppo

Che internet sia oggi il medium per eccellenza per quelle aziende che desiderano innovare il media mix classico limitando l’impatto economico e misurando più agevolmente le performance, è ormai assodato. Anche se il livello di ‘internet literacy’ italiano è ancora inferiore a quello di Paesi come la Gran Bretagna, spesso considerata precursore di tendenze e tecnologie rispetto agli altri Paesi europei, e nonostante ci sia molto da fare anche per quanto riguarda formazione e infrastrutture. A tal proposito, uno studio effettuato da eMarketer (The Global Media Intelligence Report) ha messo a confronto l’Italia e un mercato trainante come quello inglese. Ne è emerso che nel nostro Paese internet assorbe una parte degli investimenti pubblicitari, ma non supera di certo l’incontrastato dominio televisivo.

Confrontando le statistiche 2010, si evince che mediamente gli italiani guardano quattro ore in più di televisione a settimana, ascoltano tre ore in meno di radio e navigano su internet quasi cinque ore in meno. Quest’ultimo punto è dovuto a un livello di penetrazione di internet fermo al 47% e alla citata ‘internet literacy’ che nel nostro Paese risulta inferiore a quella degli inglesi (dati Euristat 2010).

Mentre per radio, giornali e riviste, mediamente l’investimento pubblicitario si scosta poco dalla media inglese, per tv e internet siamo agli antipodi. In Italia, l’investimento di comunicazione tv rappresenta il 53% del totale contro il 28% del Regno Unito, mentre l’investimento in internet si ferma al 4,2% contro il 29% in UK. È quindi chiara la preferenza dei marketer italiani per il mezzo televisivo. Senza entrare nell’analisi delle ragioni che spingono le aziende italiane a investire in modo preponderante sul piccolo schermo, se i marketer italiani si comportassero come i colleghi britannici le cose potrebbero davvero cambiare. Come spiega Christian Fasulo, ceo & founder Polk&Union, a commento della ricerca: “Il rapporto d’investimento televisivo nel Regno Unito è pari a 1,05:1 ovvero l’1,05% del budget pubblicitario per ogni ora passata davanti alla tv. In Italia, il rapporto é 1,75:1. Per internet, il rapporto UK è 2,38:1, mentre in Italia è 0,57:1. Se calcolassimo con metodo proporzionale il livello d’investimento pubblicitario in tv, si passerebbe da un 53% a un 32%; internet salirebbe a un 17,5% invece del 4,2%, vale a dire circa 1,83 mld di euro. Ciò non vuol dire la fine della pubblicità su tv, radio e carta stampata, ma potrebbe rappresentare l’inizio di un nuovo modo di fare marketing, di una comunicazione di marketing integrato che faccia leva sui punti di forza di ogni mezzo con il fine ultimo di fornire al target audience un messaggio a 360 gradi e un’esperienza misurabile in termini di raggiungimento degli obiettivi.

Tutto questo senza contare gli sviluppi tecnologici che un giorno permetteranno la vera convergenza web-tv e che renderanno il mezzo televisivo misurabile tanto quanto internet. Così per ora la partita ‘pubblicità online UK vs Italia’ si chiude 1:0 e la palla è al centro. A noi italiani il compito di presentare una nuova tattica”. Del fatto che la tv faccia ancora da padrone e ci sia spazio perché il mercato internet cresca ulteriormente, è consapevole anche Salvatore Ippolito, presidente vicario di Iab, l’associazione della pubblicità online, che durante la scorsa edizione dello Iab Forum Milano ha affermato: “In Italia c’è un vincolo di ordine culturale e un altro di ordine infrastrutturale. Siamo ancora poco attivi sulla Rete, soprattutto nella fascia più adulta della popolazione e la Rete veloce non raggiunge tutto il Paese”. L’obiettivo è quello di annullare (o almeno ridurre al minimo) il divario con le ‘lepri’ d'Europa, dalla Gran Bretagna alla Germania: oltremanica gli investimenti arrivano a 4,7 miliardi, sotto il cielo di Berlino a 3,6 miliardi. Con una spesa per utente attivo pari a oltre il doppio di quella italiana. Il che significa che è necessario osare di più. Comunque internet corre veloce e strappa quote a tutti: dalla televisione alla radio, dai giornali alle affissioni. E mentre il mercato della pubblicità si prepara a chiudere il 2011 in calo del 2-3%, il digital advertising cresce del 15% raggiungendo quota 1,2 miliardi di euro, il 14% del mercato pubblicitario complessivo (8,7 miliardi). A trainare questo incremento, l’aumento dell’investimento medio e quello delle aziende inserzioniste, cresciute quest’anno del 27%. Un settore, insomma, che sembra immune dalla crisi, visto che il mercato pubblicitario nel suo complesso ha registrato un calo del 3%.

Nonostante questi dati, e nonostante il numero di utenti internet sia in continua crescita, la internet economy vale il 2% del Pil, la metà rispetto alla media europea. “C’è ancora tanto da fare - ha affermato Ippolito -: investire in formazione e infrastrutture”. In ogni caso, secondo gli operatori, la crescita del settore é un fenomeno inarrestabile e nel 2015, emerge dalle previsioni di Iab, la internet economy varrà il 4% del Pil, ci saranno 35 milioni di utenti e la pubblicità varrà 2 miliardi di euro.



Si può osare di più

In un panorama in cui gli utenti che accedono a internet sono 26,2 milioni, in crescita del 10,4% rispetto allo scorso anno, e ogni giorno 13 milioni di utenti sono attivi sul web, la Rete è utilizzata dagli italiani per i social network (86% degli utenti), i video (71%), la musica (37%) e siti di couponing (22% degli utenti, con una crescita annua del 122%). Dalle analisi Audiweb e Nielsen emerge che anche le aziende hanno compreso appieno le potenzialità del mezzo online per dialogare con gli utenti e promuovere il proprio business in modo efficace.

È il display advertising a essere lo strumento di comunicazione su internet preferito dalle aziende, con un valore di 455 milioni di euro (in crescita del 16% rispetto allo scorso anno), seguito dal search, che cresce del 18% e si attesta su un valore di 448 milioni di euro. Affiliate, directory e classified crescono invece del 10% per un valore totale di 239 milioni di euro. Il mercato del digital advertising si è progressivamente consolidato raggiungendo la quota del miliardo già nel 2010, in un contesto economico particolarmente critico, facendo registrare un tasso di crescita superiore alla media europea (+19% per l’Italia vs il 15% dell’Europa). Secondo le stime presentate allo Iab Forum di Milano, negli ultimi cinque anni l’investimento medio delle aziende in pubblicità sui media cartacei è diminuito del 27,7%, l’investimento medio in tv ha registrato un calo dell‘11,7% mentre quello sulla radio ha avuto una crescita del 9,3%. In tutti questi settori, inoltre, c’è stata una diminuzione del numero delle aziende che vi hanno investito. Al contrario, il digitale ha registrato una crescita del 46,1%, ed è aumentato del 107% il numero di aziende che hanno investito online.

Ma se i dati relativi agli investimenti sono confortanti, lo sono meno quelli relativi alla reale conoscenza del mezzo da parte delle aziende. Una ricerca condotta su 720 aziende dei settori moda, alimentare, hospitality, pubblica amministrazione, banche, elettronica, tra maggio e novembre 2010 dagli studenti del Master in Social Media Marketing & Web Communication dello Iulm ha messo in evidenza il basso indice di ‘SocialMediAbility’ (indicatore sintetico della qualità complessiva dell’uso che l’azienda fa dei social media come canali di relazione, comunicazione e marketing) delle aziende italiane.

Tenendo presente che la ricerca non ha tenuto conto dell’aspetto qualitativo, il panorama emerso è desolante. Se a livello generale si nota quasi ovunque una buona presenza nell’ambito del web 1.0 con percentuali positive di siti attivati e di altre forme d’interattività (come forum ed email), la situazione precipita sul lato 2.0: infatti, solamente il 32,5% utilizza almeno un canale social nel proprio piano di comunicazione e la stragrande maggioranza delle aziende non inserisce link collegati ai propri profili social all’interno del sito istituzionale. Tra i settori che utilizzano almeno un social media spiccano quello bancario (53,8%), seguito da Moda (37%), PPAA (36,7%), Alimentare (30,8%), Hospitality (22,5%) ed Elettronica (14,1%).

Tra i social media più utilizzati, comunque, spicca sempre Facebook (35,2%), seguito da Linkedin (15,5%), YouTube (14,1%), Twitter (8,8%), Flickr (4,2%), Blog (3,9%). Se le aziende italiane investono di più in Rete, quindi, molte sono ‘social’ più a parole che nei fatti. Lo conferma anche un’altra recente ricerca effettuata da Sda Bocconi per Alcatel-Lucent su un campione di 1.080 aziende italiane. Secondo lo studio, infatti, il 76% considera i social network molto e abbastanza importanti per il business, ma solo il 39% ha già una strategia di gestione degli stessi e il 33% li ha utilizzati per il lancio di promozioni. Circa il 76% utilizza le interazioni con i clienti attraverso i social network per instaurare rapporti con questi ultimi e ritiene importante utilizzarli per rispondere alle richieste o alle lamentele inoltrate online, anche se solo il 25% lo fa direttamente (per esempio attraverso Facebook o Twitter) e il 19% indirettamente (tramite servizio clienti). Tra i diversi social network presenti sul web, dunque, Facebook è sicuramente quello ritenuto più importante e strategico, utile mezzo per migliorare e implementare le proprie strategie di comunicazione e di visibilità.

Da queste considerazioni è nata un’indagine di Blogmeter che ha voluto fare il punto sulla presenza delle aziende italiane in Facebook. Partendo dall’analisi degli 88 prodotti finalisti al premio ‘Brand Awards 2011’ di Gdo Week e Mark Up, lo studio ha messo a confronto (periodo dal 1° gennaio al 30 settembre 2011) l’efficacia della comunicazione dei brand sulle fan page del social network, facendo leva su parametri oggettivi (fan, post, commenti e like) e analizzando lo scenario competitivo attraverso benchmark di riferimento per categoria di mercato. Degli 88 brand considerati, il 57% non ha ancora aperto una fan page ufficiale in italiano, mentre il restante 43% si divide quasi equamente tra fan page di brand (23%) e di prodotto (20%).

Dall’analisi di post e commenti, Blogmeter dimostra che il numero di fan non è necessariamente l’indicatore principale dell’attività di una fan page: ‘La casa di Valentina’ (Bolton Manitoba) e ‘Lines Shopping Mania’ (Fater), ad esempio, si sono dimostrate particolarmente attive a livello di commenti e like ricevuti dai propri fan, nonostante il numero di questi ultimi fosse di molto inferiore rispetto ad alcuni brand tra le prime posizioni in classifica per popolarità (fan). Questo significa che ai fini di una comunicazione efficace non contano i fan, ma i like e i commenti. Ma quali sono i post e i commenti capaci di generare maggiore engagement? I segreti variano da settore a settore. Il 46% dei post più coinvolgenti (per like e commenti raccolti) nel settore Elettronica di Consumo sono link, mentre per il Beverage e il Food vincono le foto, rispettivamente con una percentuale del 46% e il 44%.

Di conseguenza, non c’è una ricetta unica per generare interesse. Oltre alla tipologia dei contenuti condivisi, anche la strategia editoriale varia a seconda del settore di appartenenza: la scelta del tone of voice (in Elettronica di Consumo più formale rispetto a Beverage, più friendly) e della tipologia di interazione con i propri fan sono due delle dinamiche in grado di determinare il successo o l’insuccesso di una fan page. Infine, la classifica. I settori con maggior presenza su Facebook sono Elettronica di Consumo - mobility e imaging (71%), seguito da Beverage - alcolici, birra e bevande (62%) e Food - alimentari freschi, confezionati e dolciario (45%). Tra i brand, Nivea risulta la pagina con più fan, mentre quella di Samsung la più commentata. Tra i prodotti, Estathè risulta la pagina con più fan, infine Cornetto, stravince in tutte le altre categorie.

Competitività? Ci vuole competenza

Ma perché la scommessa internet sia vincente è fondamentale essere preparati. Le stesse aziende sono dubbiose sulla preparazione del management rispetto alla gestione dei cambiamenti di mercato e della tecnologia. Un dubbio confermato, in parte, da uno studio Ibm (Ibm Global Chief Marketing Officer Study 2011) condotto su 1.700 chief marketing officer (cmo) di 64 paesi appartenenti a 19 settori d’industria che rivela che la maggior parte dei più importanti direttori marketing del mondo riconosce che da tempo è in atto un cambiamento significativo e durevole delle modalità di coinvolgimento dei clienti, ma si interroga sulla preparazione a gestirlo.

Per affrontare le nuove dinamiche di mercato, i cmo devono aumentare la propria competenza digitale, tecnologica e finanziaria, ma molti sembrano reticenti. Interrogati sugli attributi necessari per avere successo personale nel corso dei prossimi tre-cinque anni, solo il 28% ha risposto la competenza tecnologica, il 25% la conoscenza dei social media e il 16% quella a livello finanziario. I 68 cmo italiani intervistati sottolineano l'importanza di avvicinarsi al cliente e di essere fortemente concentrati sul miglioramento dell'esperienza di acquisto del consumatore per avere successo nell’immediato futuro. Essi sono focalizzati sull'uso dei social media come canale di coinvolgimento dei clienti, facendo leva sugli strumenti di analisi dei dati e sul miglioramento degli strumenti delle metodologie per calcolare il Roi delle attività di marketing. Prevedono di sviluppare un approccio multicanale che favorisca, nei prossimi 3-5 anni, l'uso di nuovi dispositivi quali smart phone e tablet e sono convinti che sia necessario continuare a sviluppare nuovi pensieri creativi e migliorare la collaborazione con tutte le figure manageriali, al fine di poter perseguire al meglio le proprie strategie di marketing.

Ben il 74% dei cmo italiani ritiene che i social media rappresentino un canale privilegiato di coinvolgimento dei consumatori, a fronte del 56% dei colleghi stranieri.
Un dato è certo: i consumatori condividono sempre più ampiamente le proprie esperienze online. Questo attribuisce loro un maggiore controllo e influenza sui brand, cambiando l’equilibrio di potere tra le imprese e i loro clienti e richiedendo al marketing nuovi approcci, strumenti e competenze per rimanere competitivi. I cmo sono consapevoli di questo scenario in evoluzione, ma hanno difficoltà a fornire una risposta. Più del 50% ritiene di non essere sufficientemente preparato a gestire cambiamenti importanti, dai social media a una maggiore collaborazione e influenza con i clienti, indicando che dovranno rivedere in modo significativo le strategie marketing indirizzate a brand e prodotto.

Mentre l’82% dei cmo afferma di pianificare l'aumento dell'uso dei social media nei prossimi tre-cinque anni, solo il 26% segue l'andamento dei blog, il 42% le recensioni di terzi e il 48% quelle dei consumatori per creare le proprie strategie di marketing. Carolyn Heller Baird, capo ricerca crm per Ibm Institute for Business Value e direttore globale dello studio, ha paragonato i direttori marketing che sottovalutano l’impatto dei social media a coloro che avevano mostrato lentezza a considerare internet come una nuova e potente piattaforma per il commercio.

Come l’ascesa del commercio elettronico una decina di anni fa, l'accettazione radicale dei social media da parte di tutte le categorie demografiche di consumatori rappresenta un'opportunità per i professionisti del marketing. I direttori marketing che sono ricettivi rispetto alle informazioni derivanti dai social media saranno più preparati ad anticipare i cambiamenti futuri dei mercati e della tecnologia. A livello collettivo, lo studio delinea le quattro sfide su cui devono confrontarsi le organizzazioni di marketing nei prossimi tre-cinque anni: l'esplosione dei dati, i social media, la scelta dei canali e dei dispositivi di interazione e lo spostamento demografico. I cmo di oggi devono affrontare molti più argomenti rispetto al passato.

Devono gestire una maggior mole di dati provenienti da fonti diverse, interagire con clienti più preparati, adottare strumenti e tecnologie più sofisticate, acquisire maggior dimestichezza nell’utilizzo degli stessi ed essere nel contempo maggiormente responsabili dal punto di vista finanziario nei confronti delle proprie organizzazioni. I cmo del nostro Paese si sentono più preparati a gestire l'esplosione dei dati rispetto ai loro pari ruolo (43% vs 29), ma meno a calcolare correttamente il Roi delle strategie di marketing adottate (32% vs 44%). Tendono a utilizzare in maniera ridotta rispetto ai pari grado internazionali la customer analytics (60% vs 74%): questo li porta sottolineare con maggiore insistenza l’importanza di investire in tecnologia (79% vs 73%), capace di supportare il decision making. Essi prevedono di applicare, in maggior numero rispetto agli omologhi (87% vs 80%), gli strumenti tecnologici al campo delle applicazioni ‘mobile’, anche se tra i principali ostacoli segnalati rispetto alla diffusione delle tecnologie vi è lo scarso allineamento con il settore IT (54% vs 45%).

Marina Bellantoni