Inchieste

Non diamo (solo) i numeri

Se misurare quantitativamente le performance della comunicazione aziendale è fondamentale, è altrettanto importante saper interpretare qualitativamente i ‘numeri’, attribuendo significati che le tecnologie non sanno fornire. Ma le agenzie di comunicazione sanno tradurre i dati? cerchiamo di rispondere insieme a emanuele invernizzi e stefania romenti dell’executive master in rp d’impresa dell’università Iulm. Pubblichiamo il secondo articolo dello scenario relativo all'inchiesta 'performance marketing' pubblicata sulla rivista NC - Nuova Comunicazione.
 

 
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Fino a ora abbiamo parlato di performance marketing riferito alla comunicazione digitale. Non si può però negare che quella dell’attenzione alla performance aziendale sia una tendenza che attraversa trasversalmente tutto il mondo della comunicazione e del marketing. Molto eloquente a questo proposito è l’indagine condotta dall’Osservatorio Iulm-Ketchum sulla Comunicazione Strategica, svolta dall’università Iulm in collaborazione con l’agenzia di Rp, Ketchum, sui chief communication officer (Cco) delle prime 300 aziende per dimensioni e performance della classifica Mediobanca, operanti in Italia. Ne emerge cha molte delle imprese interpellate pratica la misurazione dell’impatto della comunicazione sulle diverse aree della performance aziendale, con una buona distribuzione degli indicatori che riguardano la brand equity, l’immagine di marca e la performance competitiva (72% dei casi).

Tra i parametri di misurazione più utilizzati continua a rimanere importante il monitoraggio media (88% dei casi) ed è prevista una crescita delle tecniche di misurazione della reputazione aziendale nei prossimi tre anni (55%). La reputazione aziendale è considerata il parametro di misurazione più importante su cui investire in futuro anche perché, nelle aziende in cui viene rilevato, le proposte e i suggerimenti del Cco vengono presi maggiormente in considerazione.

“Negli ultimi dieci anni il ruolo dei comunicatori è evoluto in una funzione sempre più manageriale - spiega Stefania Romenti, vice-direttore dell’Executive Master Iulm in Relazioni pubbliche d’impresa -. Questo li ha portati a dover parlare sempre di più il linguaggio del management, e quindi a ragionare anche in termini di misurazione dei risultati”.

Ciò però, secondo Romenti, è avvenuto senza una reale costruzione di una cultura adeguata a tutto tondo, come è accaduto in altre discipline. Con il risultato che spesso vengono utilizzate etichette particolarmente pregnanti, come Kpi o Roi, senza però che vi sia stata da parte dei comunicatori un’adeguata costruzione e riflessione su questa formula. Per parlare di Roi, infatti, è importante avere ben chiaro che cosa si vuole andare a misurare, e soprattutto con quali obiettivi: i fan su Facebook, per esempio, sono un dato che non dice molto riguardo al ritorno sulle vendita.

“Per questo i colleghi americani preferiscono parlare di ‘ritorno sull’engagement’ - precisa Romenti -, proprio per differenziarlo dall’impatto sul business reale”.

D’altro canto, è innegabile il fatto che fra i massimi obiettivi di un’impresa vi sia anche quello di misurare il livello di ingaggio e la crescita della reputazione. Senza dubbio un contributo fondamentale arriva dalla tecnologia, che offre gli strumenti per operare questa misurazione attraverso analisi molto precise. Una volta ottenuto il dato, però, è necessario un lavoro di interpretazione qualitativa, perché “è fondamentale dare delle categorie di senso che le tecnologie non sono in grado di fornire - continua Romenti -. Un lavoro, insomma, qualitativo di natura umana, che elabora quanto segnalato dalle ‘macchine’ ”.

Ma a chi spetta questo compito di interpretazione dei dati? E quali competenze sono necessarie per svolgere questa funzione? Secondo Emanuele Invernizzi, professore di Relazioni pubbliche e comunicazione d’impresa e direttore dell’Executive Master Iulm in Relazioni Pubbliche d’Impresa, tutto è nelle mani delle agenzie di comunicazione e dei comunicatori aziendali, che devono sviluppare dei modelli per fornire delle interpretazioni sulla base di questa raccolta dati sempre più ricca e complessa.

“La capacità di questi soggetti di utilizzare e interpretare i dati forniti dalla tecnologia è cresciuta in maniera analoga allo sviluppo della tecnologia - si chiede Invernizzi - ? Ne hanno paura, oppure li sanno maneggiare e trarne delle conclusioni? Nel confronto con altri Paesi, soprattutto quelli anglosassoni, senza dubbio l’Italia è un po’ indietro, perché non siamo abituati alla cultura della performance. Spesso si ricorre a schemi interpretativi vecchi e desueti, che invece dovrebbero lasciare lo spazio a nuovi approcci e a un uso consapevole della straordinaria potenzialità della comunicazione di oggi”.

Sta invece alle agenzie di comunicazione posizionarsi come consulenti e partner del cliente, a cui non vendono solo servizi tecnologici, ma anche un’interpretazione qualitativa che faccia ‘parlare’ i numeri e che abbia come obiettivo l’engagement e la relazione con il consumatore.

“Dovreste parlare con i responsabili di agenzia, per capire come si muovono e quali strumenti mettono in campo”, suggerisce Invernizzi.

Ilaria Myr