Inchieste

Verso una comunicazione più empatica e condivisa

Se investire in politiche di CSR è imporante, fondamentale per le aziende è far conoscere in modo efficace il proprio impegno in ambito sociale e ambientale. La comunicazione diventa più 'slow' e condivisibile, più a misura d'uomo. Un ruolo di primo piano è quello svolto dai mezzi digitali. La strada è ormai tracciata e la direzione non può essere che questa. E' quanto emerge dall'inchiesta sulla CSR pubblicata sull'ultimo numero di NC - Nuova Comunicazione che riportiamo su ADVexpress.

Come è emerso nella news precedenti, la società italiana ha in questi anni interiorizzato le tematiche della sostenibilità, dimostrandosi più attenta e critica nei confronti dei comportamenti delle aziende in ambito Csr: questo ha portato a un’evoluzione dei comportamenti di acquisto da parte dei consumatori, che sempre di più tengono conto delle politiche delle aziende in materia di sostenibilità e Csr. Dal canto loro, negli ultimi 15 anni - periodo in cui si sono sviluppate e diffuse le tecniche di Csr - le realtà imprenditoriali hanno modificato i rapporti con gli stakeholder, dimostrando una capacità di innovare e innovarsi: il tutto all’insegna di una maggiore collaborazione e condivisione. “La Csr ha aiutato le imprese a dialogare con gli stakeholder - spiega Rossella Sobrero (foto 1), fondatore e presidente Koinética - avviando, complice anche la crisi, pratiche di collaborazione con altri soggetti della filiera per operazioni sul territorio. Oggi, si parla, come mai in passato, di processi collaborativi, co-progettazione, crowdfunding, coworking, crowdsourcing, business p2p, stakeholder engagement: tanti termini che sono entrati nel vocabolario di quella che chiamiamo sharing economy”.

La comunicazione diventa ‘slow’
Se investire in politiche di Csr è importante, è fondamentale anche riuscire a comunicare in modo efficace il proprio impegno sociale e ambientale, sia per fare conoscere le proprie attività a un pubblico sempre più sensibile a questi temi, sia per innescare nel mondo imprenditoriale comportamenti virtuosi diffusi. Di questo è convinta Patrizia Musso (foto 2),  docente incaricato di Storia e linguaggi della pubblicità all’Università Cattolica di Milano e di Forme e strategie della comunicazione digitale, che alla nuova sensibilità e strategia ‘slow’ ha dedicato il libro ‘Slow Brand. La gestione macro-economica della marca contemporanea’ (FrancoAngeli, 2013). “Nel corso del 2012 e del 2013, osservando da vicino il mondo del branding - tendenzialmente caratterizzato proprio da fattori opposti alla visione ‘slow’ -, sono apparsi all’orizzonte segnali insoliti - scrive Musso nel libro -. Una serie di dinamiche, infatti, iniziano a mostrare una sorta di maturazione più lenta, innestando così nuovi tempi in nuovi spazi, più a misura d’uomo”.

L’autrice analizza quindi, citando diverse case history, quattro aree tematiche ritenute fondamentali per indagare l’andamento slow dei brand contemporanei: Slow Advertising (da Carosello Reloaded agli spot del Super Bowl), dedicata alla comunicazione classica; Slow Places (dai punti vendita sempre più ‘accentratori del tempo dei consumatori’ ai musei aziendali); Slow Factory, relativa ai rapporti virtuosi fra azienda e propri dipendenti, coniugano internal branding, work life balance e Csr; e Slow Web, con spazi caratterizzati da temporalità slow (dai cortometraggi digitali brandizzati ai loop comunicativi con il mondo offline). In particolare, nella sezione dedicata allo Slow Advertising, Musso incentra la propria riflessione su come sia cambiata la comunicazione classica alla luce delle nuove tendenze sociali e sostenibili.
“Nell’epoca dell’accelerazione e del flusso continuo, reso ancora più evidente dai nuovi media, appare chiaro come i brand abbiano necessità di dilatare i tempi di contatto con i propri stakeholder, a partire dai mezzi di comunicazione mass mediale - scrive -. Ecco allora che la serialità pubblicitaria diventa un format necessario per mantenere un legame duraturo coni consumatori televisivi. (…) Stiamo assistendo a una trasformazione graduale del linguaggio pubblicitario, teso sempre più a rallentare i ritmi frenetici dei suoi spot con l’introduzione di alcuni ‘elementi di lentezza’ (…). Il nostro schermo è sempre più abitato da ‘slow spot’, capaci di attirare l’attenzione dello spettatore per mesi interi”.

Una comunicazione più empatica e condivisa
Nonostante però i numerosi casi di comunicazione slow e di Csr analizzati nel libro, l’impressione è che, almeno in Italia, ci sia ancora un ampio margine di miglioramento. “Spesso si parla di attività di Csr delle imprese solo in canali di nicchia, e quasi mai, invece, a pubblici più ampi - spiega Musso -, con il risultato che le operazioni sostenibili sono molto più numerose di quelle che vengono poi effettivamente comunicate”. Inoltre, i mezzi utilizzati per veicolare queste tematiche sono ancora principalmente quelli tradizionali (stampa, tv, radio), mentre si fatica ancora a sfruttare il web e i social media in modo efficace. “Solo oggi si può dire che la Csr stia andando davvero verso il 2.0 - continua Musso -, che proprio perché è condivisione e conversazione, si rivela il canale più adatto per questo ambito. Ma è innegabile che ci sia ancora tanta diffidenza da parte delle aziende nei confronti di queste piattaforme”. Da un lato, dunque, vi sono alcune aziende italiane, che hanno capito come utilizzare in modo virtuoso i canali online, e che per questo rientrano nella classifica del Csr Online Awards, la ricerca condotta da Lundquist che valuta come le maggiori società, in Europa e in Italia, utilizzino i canali online per comunicare la propria Csr. Ne emerge come la sostenibilità e responsabilità sociale stiano subendo un profondo cambiamento che sta ridefinendo il rapporto azienda-stakeholder. Ma se ne evince anche come le aziende italiane siano particolarmente deboli nell’utilizzo dei social media e nel coinvolgimento degli stakeholder sui temi chiave della sostenibilità.

Concorde sulla necessità di cambiare le modalità di comunicazione della Csr è Rossella Sobrero, che parla di ‘comunicazione empatica’. “Non bastano bilanci sociali ben fatti, codici etici articolati, messaggi chiari e ben argomentati - spiega -. Per coinvolgere stakeholder e influenti la comunicazione deve anche essere empatica, trasmettere positività e creare emozioni. Dati, informazioni, indicatori servono ma non sono sufficienti. Bisogna assumere un tono più collaborativo”. Basti pensare alla nuova strategia di comunicazione di Greenpeace, che alla tradizionale tecnica di boicottaggio ha sostituito di recente un approccio più informativo, ad esempio redigendo delle guide alle imprese di apparecchiature elettroniche. “Questo vuole dire cercare soluzioni comuni ed essere disponibili al confronto - continua Sobrero -. Oggi, più che in passato, è necessario affiancare alla rendicontazione puntuale di quanto realizzato la testimonianza del valore positivo generato, della consapevolezza di aver contributo alla soluzione di un problema, della soddisfazione per aver coinvolto tanti soggetti nella propria attività. La comunicazione può aiutare la Csr a svilupparsi ulteriormente. Indispensabile è crederci e agire di conseguenza”. Ma anche i comunicatori hanno un ruolo importante nella diffusione e applicazione di pratiche comunicative efficaci: sono, infatti, loro che devono stimolare le aziende a valorizzare il loro impegno in modo più empatico. “Anche dai partner di comunicazione ci vuole maggiore consapevolezza della bontà di strategie attente a questi aspetti - continua Sobrero -: sta a loro infatti assumere il ruolo di consulenti a tutto tondo e far capire ai clienti che un atteggiamento più aperto e innovativo alla Csr serve a migliorare il business nel suo insieme”. A monte, dunque, ci deve essere un profondo cambiamento culturale, che porta non solo i singoli ma anche le realtà imprenditoriali a modificare i propri comportamenti, che devono poi essere comunicati in modo efficace sui diversi mezzi.